Il dramma senza sangue e senza fame dell'esule nordcoreana Hyeonseo

Giulia Pompili
Kim Jong-un, primo segretario del Partito dei lavoratori e comandante supremo dell’Esercito popolare di Corea, ha apprezzato il regalo fatto dal presidente boliviano Evo Morales a Papa Francesco e in vista di un’apertura tra la Repubblica democratica di Corea e la chiesa cattolica sta per volare nella Città del Vaticano, per una visita al Pontefice. Naturalmente ciò che avete appena letto l’abbiamo appena inventato di sana pianta.

Kim Jong-un, primo segretario del Partito dei lavoratori e comandante supremo dell’Esercito popolare di Corea, ha apprezzato il regalo fatto dal presidente boliviano Evo Morales a Papa Francesco e in vista di un’apertura nei rapporti tra la Repubblica democratica di Corea e la chiesa cattolica sta per volare nella Città del Vaticano, per una visita al Pontefice. Naturalmente ciò che avete appena letto l’abbiamo inventato di sana pianta. Ma essendo la sua falsità “non verificabile per l’inesistente libertà di stampa del regime di Pyongyang” (copyright Repubblica online, 08 luglio 2015) resta pure verosimile che il paffuto Kim Jong-un abbia voglia di incontrare Bergoglio, dopo averlo visto con una falce e martello in mano. Se la notizia fosse tuittata dal Daily NK (quotidiano sudcoreano particolarmente occhiuto sulla Corea del nord) finirebbe di certo sul Daily Mail, poi magari sul Guardian, sull’Independent. Da lì, a pioggia, sulle homepage di parecchi siti anche italiani. L’Italia, in particolare, si distingue sempre per abboccamento: tutto quanto c’è di strambo e stravagante elevato a notizia, attraverso la rara capacità di trasformare la serietà di un fatto (l’esecuzione di qualcuno) in una follia da boxino morboso – naturalmente corredata da photogallery. Il problema è – appunto – uno solo: in Corea del nord le esecuzioni pubbliche per motivi politici, sommarie e senza processo, esistono davvero. E c’è una differenza macroscopica tra la sacrosanta libertà di satira e la ridicolizzazione di ogni non-notizia che giri su internet a proposito della Corea del nord. Il problema di fondo di questa mistificazione ha a che fare con il giornalismo, con la credibilità, eccetera. Ma c’è anche un’altra questione. A forza di parlare di allevatori di aragoste scomparsi, di architetti di aeroporti forse morti ammazzati, di leggi sul taglio di capelli da adottare, di nomi dei neonati imposti… insomma, a forza di riportare notizie false, prodotte da una macchina di propaganda goffa e ferma al secolo scorso, si rischia di ridurre la Corea del nord a macchietta. Ed è proprio così che si perde di vista il fatto che Pyongyang è una potenza nucleare che si tiene insieme sulla retorica antioccidentale, dove i campi di lavoro esistono, e dove la libertà è un concetto tutto orientato all’adorazione divina del leader. Ed è così che quando la propaganda nordcoreana prende in giro i media occidentali, smentendone le notizie, finisce pure per avere ragione (per esempio, qui).


Lo stesso problema si pone quando parliamo di esuli – quelli che la Corea del nord chiama “defector”. Nel corso degli anni, la stampa ha capito che sui giornali tirano le notizie folli dalla Corea del nord, ma anche i dettagli truculenti. Il sangue, la fame. E così sono tantissimi i libri, le interviste di esuli divenuti poi più o meno famosi che forzano la mano dei ricordi per tentare di avere più ascolto. Alcuni di loro sanno cosa dire, sanno come farsi pagare per le interviste. Ci sono decine di studi che dimostrano come il regime di Pyongyang lavori sul cervello dei cittadini, spesso annientando qualunque senso di affettività, e come il senso della vita come sopravvivenza resti anche dopo la fuga: per loro si tratta di sopravvivere, per i media di una cronachetta morbosa. Su questo tipo di testimonianze si dovrebbe basare il deferimento alla Corte penale internazionale della Corea del nord per violazione dei diritti umani. Ma come ogni film giudiziario insegna, se il tuo testimone non è credibile, non hai possibilità di vittoria. Ecco perché la verità non solo sarebbe sufficiente, ma è fondamentale quando si parla di Corea del nord. Lee Hark-joon, giornalista del Chosun Ilbo, tra il 2007 e il 2011 ha vissuto tra i profughi nordcoreani in Cina per documentarne la vita. “Crossing Heaven's Border” – tradotto in inglese quest’anno – non racconta storie al limite dell’umano, ma qualcosa di più vicino alla verità, e non per questo meno terribile. Anche lui nel suo libro racconta le storie di esuli che mentono.


E poi c’è un caso a metà. Ieri, in contemporanea mondiale, è uscito “La ragazza dai sette nomi” di Hyeonseo Lee, tradotto in italiano per Mondadori (360 pp., 20 euro). Hyeonseo Lee è una delle esuli nordcoreane più famose, il suo video Ted è uno dei più visti della storia, e lei ha un volto meravigliosamente televisivo. Ora, quasi vent’anni dopo la sua fuga, ha un manager, un cachet per ogni intervento pubblico, e finisce sulle copertine dei giornali glamour con abiti attillatissimi. La sua autobiografia, però, è più realistica di tante altre, ma per capirlo bisogna saper leggere tra le righe. Hyeonseo racconta la sua nascita nel 1980, e il fatto di essere stata figlia di un amore vero, sincero, tra i suoi genitori. Racconta la sua vita familiare a Hyesan, un paesino rurale vicino allo stretto fiume Yalu, l’antico confine con la Cina. Dopo la morte del padre, a 17 anni, Hyeonseo decide di fare “un’esperienza” in Cina, e una notte valica il confine con l’aiuto di un ragazzo che le fa il filo e che lavora come militare sul confine. I confinanti cinesi l’aiutano – come fanno con tutti gli esuli nordcoreani, scrive. Sono loro a portare Hyeonseo a Shenyang, in Cina, da alcuni suoi lontani parenti che la ospitano per cinque anni. Ma incomprensibilmente Hyeonseo non è ancora felice, colpa di un promesso sposo che le va stretto, e allora da lì ancora fughe. Finisce in un giro di prostituzione, come accade spesso alle donne nordcoreane senza documenti. Poi, finalmente, l’arrivo all’aeroporto di Seul e la Corea del sud, che è una specie di “ritorno a casa” per tutti gli esuli. La parte più difficile arriva quando Hyeonseo decide di portare al Sud, da lei, anche la madre e il fratello. Ci riesce, e quando la famiglia è riunita, succede che entrambi vorrebbero tornare a casa, a Hyesan. Ed è un ritorno che avviene spesso tra gli esuli che non riescono ad adattarsi alla vita “normale” (nel caso di Hyeonseo, madre e fratello resteranno per amore di lei e della famiglia). Nel frattempo Hyeonseo finisce nel programma di Channel A “Now on My Way to Meet You”, una sorta di talent show di nordcoreani per la tv sudcoreana. Ottiene il passaporto, scrive le sue memorie. Un lunghissimo viaggio verso la libertà, che però non è mai una vera libertà. Anche attraverso la copertina patinata che si è creata oggi, Hyeonseo racconta con estrema semplicità il dramma di non avere un posto nel mondo, una volta scappati dalla Corea del nord. Un’altra bella storia, certo, ma che illumina una questione che sembra ormai indicibile: come sia possibile, oggi, l’esistenza stessa di un luogo come quello.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.