Da sinistra, il fondatore di Lotte Group Shin Kyuk-ho, il primogenito Dong-joo e il più giovane Dong-bin

Ne parla tutta l'Asia: la guerra dinastica dentro la corporation coreana Lotte

Giulia Pompili
Un padrone di 92 anni, due figli che si contendono il patrimonio

Roma. La dynasty della Lotte group meriterebbe un feuilleton, una serie tv, almeno un manga. Perché sembra proprio una stagione del “Trono di Spade” la lotta per la successione di uno dei conglomerati più potenti d’Asia, il quinto della Corea del sud (secondo Yonhap News), fondato da Shin Kyuk-Ho nel 1948, tanto da essersi conquistata ieri la prima pagina del Wall Street Journal. Fino a quel momento, e per una settimana, la vicenda aveva riempito almeno le prime dieci pagine di giornali e magazine sudcoreani. Eppure dentro il romanzo di quella dinastia c’è tutto: c’è la geopolitica, c’è la letteratura, c’è un modello economico che stenta a sopravvivere, c’è il complesso dei figli che vogliono prendere il posto dei padri e superarli. E poi c’è l’affascinante mondo dei rapporti familiari asiatici, lì dove persiste l’idea trascendente di una missione consegnata dagli antenati ai successori. L’opportunismo dei due eredi al trono, che si contendono la Lotte group screditandosi l’un l’altro, sta intrattenendo  la stampa finanziaria asiatica di questo afoso agosto.

 

Shin Kyuk-Ho oggi ha 92 anni, è ridotto pelle e ossa e si muove su di una carrozzella, con una elegante coperta sulle gambe, fa fatica a fare qualche passo. La sua forza è nella sua storia. Nato a Ulsan, in Corea del sud, nel 1922, quando la Corea era ancora sotto il dominio giapponese, dopo le scuole professionali pubbliche, mr. Shin decide di tentare la fortuna in Giappone. Si iscrive a una delle università private più prestigiose di Tokyo, la Waseda, alla facoltà di Ingegneria chimica, con il nome nipponico di Takeo Shigemitsu. Quattro anni dopo, Shin Kyuk-Ho fonderà nella capitale giapponese la sua azienda, introducendo per la prima volta la gomma da masticare ai giapponesi. E’ un’anima romantica, mister Shin, e decide di chiamare la sua azienda come quello dell’amore platonico per eccellenza, la Charlotte dei “Dolori del giovane Werter” di Johann Wolfgang Goethe. Oggi la Lotte corp. è una multinazionale che produce soprattutto caramelle, chewingum, cioccolato, biscotti. Il motto dell’azienda è, non a caso, “The sweetheart of your mouth, Lotte”. Ma Shin ha un problema geopolitico: ha successo in Giappone, e la sua Lotte diventa uno strano animale bifronte, una coreana e una giapponese. Tanto che la sua prima sposa la sceglie giapponese. Poi avrà altri due matrimoni, l’ultimo dei quali con una famosa attrice coreana, Seo Mi-Kyung. Dal 1948 in poi, Shin farà tutto doppio, per accontentare entrambe le nazionalità: la Lotte possiede due squadre di baseball, palazzi di shopping sia a Seul sia a Tokyo, due quartier generali. Oltre all’imbarazzo di avere un rapporto privilegiato tra due paesi che vivono con rapporti diplomatici ai minimi storici, Shin ha un problema di successione. Perché i suoi due figli, quelli che da sempre lavorano per guadagnarsi la presidenza, non fanno che litigare. Chi tra Shin Dong-joo, il figlio maggiore, e Shin Dong-bin, il secondogenito, salirà sul trono Lotte? A gennaio Dong-joo era stato cacciato, per il piccolo sembrava fatta, poi improvvisamente Dong-joo ha fatto un’apparizione pubblica spingendo la carrozzella del padre. Dong-bin ha parlato di “colpo di stato”, di circonvenzione di incapace, ha detto che se avesse avuto l’autorità avrebbe deposto il padre, perché non ci sta più con la testa. Dong-joo è dell’ala giapponese, fa interviste in giapponese, e dà motivo a Dong-bin di rivendicare, sulla stampa coreana, le origini coreane del gruppo. A un certo punto è pure comparso un misterioso documento che somiglia a un testamento in cui il fondatore dice di lasciare tutto a Dong-joo, ma sono molti a mettere in dubbio la sua autenticità. Il 2 agosto scorso Shin Kyuk-Ho è andato alla tv coreana Kbs a dire che non aveva mai detto che il suo successore sarebbe stato Dong-bin, e si è scusato con il pubblico per i pettegolezzi sulla vicenda.

 

[**Video_box_2**]I grandi conglomerati sudcoreani a conduzione familiare si chiamano chaebol. Un modello d’economia peculiare, che in fondo non si differenzia molto dalla vecchia economia di casa nostra, con poche famiglie in possesso dei più grandi gruppi italiani. Il fatto è che a un certo punto della storia, dopo gli anni ruggenti del boom economico, quel modello economico ha iniziato a scricchiolare fino a frantumarsi di fronte a un sistema più agile, di liberismo e mercato globalizzato. Nei paesi più sviluppati dell’Asia, invece, sono quei conglomerati a traniare l’economia. In coreano la parola chaebol è una crasi della parola proprietà con la parola famiglia. Significa che nessun consiglio d’amministrazione può mettere in discussione il fatto che dell’azienda dispongono esclusivamente i membri della famiglia. Qualunque cosa faccia, perché i chaebol godono di privilegi mai visti da parte del governo di Seul, che spesso è costretto ad annunciare delle amnistie per salvare i chaebol da possibili collassi legati a reati finanziari. Il corrispettivo giapponese sono i gruppi finanziari chiamati zaibatsu, attivi sin dall’Ottocento e un tempo controllati da ricchissime famiglie, ma che nel Dopoguerra si sono trasformati in keiretsu: holding o multinazionali come Mitsubishi, Sony, Toyota.  Nello schema economico coreano, però, si è arrivati alla rottura: negli ultimi dieci anni i vecchi fondatori dei chaebol hanno iniziato a cercare uomini adatti per le successioni. Stanno invecchiando, e non possono tenere ancora per molto sulle spalle il peso di multinazionali milionarie. Ed ecco che qui entrano in gioco i figli, e i parenti più stretti. Insomma, i serpenti.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.