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l'analisi

Il dramma del movimento 5 Schlein

Luciano Capone

Dal Jobs Act all’Ucraina passando per il salario minimo, la difesa e il reddito di cittadinanza. La  linea del Pd è  la vecchia linea del M5s. Con una costante: essere contrario a ciò che ha sostenuto e favorevole a ciò che ha contrastato

Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano è impegnato in una battaglia contro l’“egemonia culturale” della sinistra, in particolare del Pd. Se il campo di battaglia è quello della sostituzione del personale nei posti di sottogoverno, siamo nell’ambito dello spoils system. Ma se il terreno di gioco è quello delle idee, allora Sangiuliano ha sbagliato obiettivo. Perché quella guerra il Pd l’ha persa da tempo. A sinistra la vera egemonia culturale, in senso gramsciano, cioè di direzione intellettuale anziché di dominio di potere, è del M5s. L’ultimo segnale sono i referendum della Cgil contro il Jobs Act, la principale riforma del lavoro del centrosinistra, che Elly Schlein – qualche giorno dopo Giuseppe Conte – ha detto di firmare senza però vincolare il resto del partito. 

 

A parte la linea singolare dell’appoggio a titolo personale di un referendum  da parte di un segretario di partito, ormai si vede una regolarità: il Pd è un M5s in ritardo. Può impiegarci uno o dieci anni, ma alla fine arriva a sostenere ciò che sosteneva il M5s. O meglio, per essere più precisi, la linea di politica economica del Pd è essere contrario a ciò che ha sostenuto e favorevole a ciò che ha contrastato.  L’unica costante che regola la politica del Pd è l’incoerenza senza orizzonte. Di più: il rinnegamento. Perché in un certo arco temporale, che può essere più o meno ampio, inevitabilmente il Pd arriva a sostenere, con la stessa convinzione, l’opposto di ciò che sosteneva prima. Questa tendenza è evidente sui temi del lavoro, essenziali per il partito guida della sinistra. Schlein ha una certa coerenza a volere l’abolizione di ciò che resta del  Jobs Act, visto che anche per questo era uscita dal Pd, ma il resto del gruppo dirigente  che ha votato con convinzione quella riforma e l’ha sostenuta nel tempo, difendendola dagli attacchi del M5s, dovrebbe avere qualche problema. In realtà, pare di no. A parte qualche mugugno, che è il sintomo di una guerra di logoramento tra correnti, non c’è alcuna lacerazione o battaglia intellettuale. Anche perché la classe dirigente del Pd è stata selezionata nel tempo per la capacità di cambiare idea al cambiare del leader: da Bersani a Renzi, da Zingaretti a Letta fino a Schlein. Tutti hanno votato a favore del Jobs Act, tutti – o la gran parte – firmeranno per abrogarlo.
Ma non è l’unico caso. Prendiamo il Reddito di cittadinanza (Rdc). Il Pd si oppose duramente contro la misura voluta da Luigi Di Maio (governo Conte I), ma una volta arrivato al governo con il M5s se l’è piano piano fatto andare bene. Inizialmente diceva di volerlo riformare, poi visto il niet di Conte se l’è fatto andare bene così com’era, ha rinunciato a riformarlo quando Draghi voleva correggerlo e, infine, ne è diventato uno strenuo difensore nella sua forma originaria quando Giorgia Meloni l’ha cambiato.

 

Idem per il decreto Dignità. Il Pd lottò strenuamente contro la norma voluta da Di Maio, perché avrebbe irrigidito troppo il mercato del lavoro producendo disoccupazione. Ora il ritorno al decreto Dignità, manco fosse lo Statuto di cui parlava Sidney Sonnino, è un punto fondamentale del programma sul lavoro del Pd. Il decreto Lavoro del governo Meloni che, facendo propria una vecchia proposta del Pd per correggere la legge voluta dal M5s, ha individuato una via di mezzo tra le rigidità del decreto Dignità e la flessibilità del decreto Poletti (introdotto sempre dal Pd) è ora battezzato dai dem come “decreto Precarietà” sebbene nell’ultimo anno il mercato del lavoro abbia assistito a un’impennata di contratti a tempo indeterminato.

 

Anche sul salario minimo la parabola è stata la stessa. E’ una proposta che il M5s porta avanti da almeno dieci anni e contro cui il Pd si è sempre opposto. Anche quando governavano insieme, sono stati i dem a impedire alla ministra del Lavoro grillina, Nunzia Catalfo, di introdurre il salario minimo orario legale. E anche quando, con il governo Draghi, il Pd ha ripreso il controllo del dicastero del Lavoro, il ministro Andrea Orlando non ha proposto nulla del genere ma una soluzione di compromesso. La linea, insomma, era per certi versi la stessa del governo Meloni: stabilire i minimi attraverso la contrattazione collettiva che, anzi, rischiava di essere indebolita dal salario minimo. Una volta passato all’opposizione, il Pd ha abbracciato integralmente la proposta del M5s, indicandola come unica soluzione possibile contro il lavoro povero. Sì al salario minimo, sì al decreto Dignità, sì al Rdc, no al Jobs Act: sul lavoro il programma  del Pd è il programma del M5s di dieci anni fa. Ma soprattutto è l’esatto contrario del programma attuato dal Pd negli 8 anni su 10 in cui ha governato, dal 2013 in poi. Ma la questione non riguarda solo il lavoro.

 

Sulla difesa, ad esempio, il Pd è ormai chiaramente su una posizione contraria all’aumento delle spese militari. La stessa, insomma, che dai tempi del governo Draghi ha espresso il M5s di Conte. Il problema, però, è che all’epoca ministro della Difesa era Lorenzo Guerini, del Pd, che non solo aveva preso un impegno in sede Nato per aumentare le spese per la difesa al 2 per cento del pil nel 2028, ma su quell’obiettivo era riuscito a ottenere un voto del Parlamento pressoché all’unanimità. Ora non solo il governo Meloni non rispetta quel target, perché le spese militari in rapporto al pil si sono ridotte, ma il Pd dice che bisogna spendere ancora meno. 
Se l’egemonia grillino-contiana è la costante degli ultimi anni del Pd, è chiaro che la prossima tappa è l’Ucraina: segnali di un riposizionamento in senso “pacifista”, ovvero di ostilità al sostegno militare a Kyiv, sono già evidenti dalle candidature alle europee. Se si vuole sapere, con buone probabilità, come sarà il Pd del futuro basta guardare al M5s del passato.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali