ansa

I guai di Pechino

L'economia cinese arranca, ma per Xi è più importante lo yuan

Mariarosaria Marchesano

Crescita del pil nel 2023 ai minimi da trent'anni, popolazione in calo, vendite al dettaglio sotto le attese. Gli investitori esteri scappano ma il presidente cinese è molto più interessato a far crescere il peso della moneta del paese

 La Cina continua a deludere i mercati finanziari. Una serie di dati macroeconomici negativi – crescita del pil nel 2023 (+5,2 per cento) ai minimi da trent’anni, vendite al dettaglio a dicembre sotto le attese (+7,4 per cento), popolazione in calo per il secondo anno consecutivo, prezzi delle nuove abitazioni giù ai minimi dal 2015 – ha mandato in rosso la Borsa di Hong Kong che tra martedì e mercoledì ha perso oltre il 4 per cento. È solo l’ultimo di una lunga serie di cali che ha portato il listino asiatico, quello storicamente più aperto agli investitori internazionali, a perdere il 14 per cento nel 2023 (Shanghai, mercato più domestico, ha fatto -18 per cento nello stesso anno). E questo a fronte dell’andamento opposto delle Borse occidentali (europee e americane) che lo scorso anno hanno guadagnato più del 20 per cento. Un’asimmetria fin troppo evidente. Eppure, quello appena passato è stato l’anno della riapertura del Dragone dopo tre di politica zero Covid. Ma le grandi aspettative che questo aveva suscitato tra gli investitori sono andate deluse e così il declino di Shanghai e Hong Kong rappresenta forse il segnale più evidente della scarsa capacità o volontà del governo di Xi Jinping di ricreare un ambiente market-friendly dopo gli interventi normativi sui settori immobiliare e tecnologico che negli ultimi anni hanno scoraggiato i capitali privati. 


“È un castello di carta che si sta sgretolando”, dice al Foglio Alessia Amighini, ricercatrice dell’Ispi e docente di economia all’Università del Piemonte orientale. “Personalmente, non ho mai creduto a una vera apertura in termini di libero mercato da parte del governo cinese, che sta dimostrando di prediligere un sistema economico-finanziario chiuso, e poco importa se gli investitori esteri scappano, mentre appare molto più interessato promuovere lo yuan, il  renmimbi come moneta internazionale di scambio. Oggi gli sforzi del Partito comunista cinese sono più concentrati nella strategia valutaria che a riconquistare il favore degli operatori economici al suo interno. Strategia, a mio parere, ancora sottovalutata in occidente”. Insomma, se c’è una fuga di capitali dai mercati finanziari interni non è in cima alle preoccupazioni delle autorità di Pechino perché la partita dell’egemonia globale si gioca da un’altra parte. Lo dimostra anche il dato sulle vendite all’estero uscito nei giorni scorsi: nei primi dieci mesi del 2023 l’export cinese è calato del 4,7 per cento complessivamente (primo tonfo dal 2016) ma è cresciuto di oltre il 50 per cento per cento verso la Russia, paese considerato evidentemente “amico” da Pechino. Tutto questo a dove porta se non a un riposizionamento o addirittura all’uscita della Cina dai portafogli degli investitori globali? Probabilmente, è un danno collaterale che è stato messo in conto nel momento in cui, questo è il pensiero di Amighini, l’ambizione del governo di Xi è diventata far crescere il peso della moneta cinese, anche attraverso i Brics. Amighini è co-autrice, insieme con Alicia Garcìa Errero, di un’ampia nota pubblicata dal think thank Bruegel in cui spiega come l’uso transfrontaliero del renmimbi per transazioni commerciali e finanziamenti (prestiti esteri delle banche cinesi denominate nella valuta nazionale e linee ufficiali di swap offerte dalla Banca popolare cinese) è in aumento dal 2022, in coincidenza con l’invasione russa dell’Ucraina e delle relative sanzioni occidentali.

“Persino la Francia è stato il primo paese a firmare accordi commerciali che prevedono l’uso della moneta cinese al posto del dollaro per l’acquisto di forniture energetiche”, osserva l’esperta, “ma la vera questione è che la Cina oggi è il principale partner commerciale di un gran numero di paesi ed è diventata uno dei principali creditori per buona parte del Sud del mondo. Ciò, insieme alle restrizioni sempre più frequenti sull’uso del dollaro sta rafforzando lo yuan”. Resta il fatto, però, che lo yuan non va oltre il 6 per cento delle riserve valutarie mondiali mentre il dollaro supera il 60 per cento. “Non è al dato medio che bisogna guardare ma alla rapida crescita dei pagamenti in renmimbi che sta avvenendo in alcune aree geografiche”, prosegue Amighini. “Le autorità cinesi non permetteranno mai che la loro moneta fluttui sul mercato come avviene per il dollaro che è espressione di un sistema valutario e finanziario aperto, ma questo è ancora più grave perché vuol dire che il renmimbi sta aumentando il suo peso nonostante non sia convertibile. In pratica, siamo di fronte a una vera bolla valutaria”. Ma come stanno vivendo gli investitori internazionali una Cina che non cresce più ai ritmi di un tempo e che, però, ha aumentato l’incertezza? Giuseppe Patara di Pictet WM concorda sul fatto che gli investitori stiano riconsiderano le loro prospettive a medio-lungo termine sulla Cina “tant’è – dice – che stanno chiedendo rendimenti maggiori proprio a fronte di un rischio idiosincratico che ritengono aumentato in particolare nel settore dei tecnologici dove è stato più incisivo l’intervento statale”. In altre parole, a pagare il prezzo dell’ingerenza pubblica nel settore sono le stesse società private che devono remunerare di più chi acquista le azioni.

“L’economia cinese investibile”, prosegue Patara, “ha deluso le aspettative nel periodo post Covid poiché non è stato fatto nulla per migliorare le condizioni in cui si muovono gli operatori per i quali la certezza delle regole è fondamentale per posizionarsi su un paese. Per contro, le autorità hanno cercato di sostenere la crescita interna attraverso iniezioni di liquidità e in qualche modo ci sono riusciti poiché il pil nel 2023 è aumentato poco meno del 5 per cento e promette di fare altrettanto quest’anno, ma nutro dubbi sul fatto che ci sarà una ripresa dei consumi, come si comincia a vedere anche dal calo del prezzo delle case”. Si può così concludere che il sistema finanziario cinese sta implodendo sotto il peso di un autoritarismo sempre più dirigista? “Non è mai stato un sistema paragonabile a quello anglosassone o americano, ma sembrava volere fare un salto per avvicinarsi. Poi le autorità si sono accorte dell’uso dilagante della leva, soprattutto nel settore immobiliare che poi è stato il vero motore della crescita cinese a due cifre grazie anche alla spinta delle banche ombra. Tutto è tracollato senza, per fortuna, contagiare i mercati globali. Ma non c’è da sorprendersi se oggi nei confronti della Cina chi investe capitali adotta maggiore cautela”.
 

Di più su questi argomenti: