Hub di Stellantis a Mirafiori - foto Ansa

L'auto che spiega l'Italia

L'automotive italiano affossato dal "fattore Landini" 

Stefano Cingolani

Remissivo con Elkann, battagliero con Marchionne e Calenda, miope su Stellantis. Catalogo degli errori del segretario della Cgil

La grande partita che si gioca sul futuro dell’automobile, in Italia lascia finora ai margini i sindacati. Non è così altrove. Negli Stati Uniti si è vista una mobilitazione inusuale, il presidente Joe Biden si è recato a Detroit proclamando il suo sostegno ai lavoratori in sciopero, si sono fermate le fabbriche di General Motors, Ford e Stellantis. In Germania la Dgb, la potente confederazione che riunisce le otto principali federazioni sindacali, fa appello alla cogestione e al neo corporativismo per un confronto a tre, con il governo e i vertici dei grandi gruppi. In Francia, dove la sindacalizzazione è meno estesa, sia la Cgt (il sindacato fondato dai comunisti) sia la Cfdt di tradizioni catto-socialiste, chiedono la sponda di Emmanuel Macron che pure non amano e hanno ottenuto finora che Stellantis non chiudesse nessun impianto e concentrasse sul patrio suolo i nuovi investimenti, a cominciare dalla gigafactory. Perché l’Italia, un tempo conosciuta per la forza del suo movimento operaio, è rimasta spiazzata? Un bel tema per uno storico del sindacalismo. Una ragione senza dubbio rilevante è la divisione tra le maggiori confederazioni: da una parte la Cgil che spesso trascina con sé la Uil, dall’altra la Cisl. Il paradosso è che proprio sull’auto i cislini chiamano in causa l’azienda, mentre il sindacato rosso se la prende con il governo. Come mai? Per cercare una risposta dobbiamo risalire all’innovazione finora più dirompente, la fusione tra Fiat Chrysler e Peugeot Citroën con in coda Opel, e ricostruire l’atteggiamento della Cgil o meglio del suo segretario Maurizio Landini, il “sindacalista della porta accanto” secondo alcuni, il vero capo dell’opposizione secondo altri, un’opinione diffusa a destra come a sinistra.

 

 

“Stellantis è il più grande accordo finanziario e industriale tra soggetti privati che si sia realizzato in Europa, siamo di fronte a una svolta storica in un settore strategico come la mobilità”. Così Landini per il quale “torna la centralità industriale della produzione di mezzi per il trasporto di persone e merci. E questo accade mentre l’Europa ripensa le logiche della mobilità, della sostenibilità ambientale e digitale mettendo a disposizione degli stati miliardi di euro come non se ne erano mai visti, in una logica, in più, di condivisione del debito”. Non sfugge agli strali il detestato neoliberismo: “Questa è un’occasione anche per ridisegnare la stessa filiera della componentistica perché la lunga catena del valore che si è imposta nei decenni del neoliberismo ha mostrato tutti i suoi difetti proprio durante questi mesi terribili del coronavirus”. Di fronte al cambiamento epocale, “il governo italiano, dopo aver concordato un ingente prestito, rischia di fare da spettatore”. Questo il succo del Landini pensiero. Il take dell’Agenzia Italia che riporta la sostanziale benedizione all’accordo Stellantis è datato 6 gennaio 2021. Il secondo governo Conte era agli sgoccioli, si preparava già Mario Draghi. I tre re magi, Carlos Tavares, John Elkann e Robert Peugeot (Gaspare, Melchiorre e Baldassarre oppure viceversa, lasciamo ai lettori la scelta) recavano un gran regalo all’industria dell’auto made in Italy e a tutta la filiera collegata. 

Carlo Calenda ha una lettura opposta, eccola punto per punto: “1) Ottobre 2018 Elkann cede Magneti Marelli assicurando che non ci saranno esuberi. I sindacati commentano entusiasticamente l’operazione. 2) Marelli aveva all’epoca della cessione 43.000 dipendenti di cui 10.000 in Italia. Oggi ne ha 50.000 di cui 7.000 in Italia. 3) Aprile 2020, Elkann acquista Repubblica. 4) Giugno 2020, il governo Conte 2 eroga una garanzia Sace per 6,3 miliardi di euro a favore di Fca. 5) Gli azionisti si pagano in Olanda un dividendo straordinario da 5,5 miliardi. I sindacati non aprono bocca. 6) Giugno 2021, nasce Stellantis. Il governo italiano non ottiene alcuna garanzia su investimenti e occupazione. I sindacati commentano entusiasti. 7) Oggi Stellantis produce in Francia un milione di auto e in Italia 400 mila. 8) Stellantis produce negli stabilimenti italiani sette modelli, in quelli francesi quindici. 9) In Francia tutti gli stabilimenti producono componenti per veicoli elettrici e ibridi. In Italia solo uno stabilimento. 10) L’ultimo dato disponibile indica gli investimenti di Stellantis in Italia pari appena al 10 per cento del totale. 11) Gli stabilimenti italiani sono stati colpiti da 7.500 esuberi. Quelli francesi zero. 12) In Francia, Stellantis ha depositato 1.239 brevetti, in Italia 166. 13) Rispetto a questa situazione drammatica, Landini non ha fatto dichiarazioni e non ha promosso mobilitazioni nazionali. 14) Quando, con Marchionne, la produzione di Fca era del 30 per cento superiore a quella attuale, Landini ha promosso mesi di mobilitazioni nazionali contro il nuovo contratto. Conclusione: rispondete di questo ai lavoratori”.

Abbiamo trascritto un post del leader di Azione, che risale a quando si era recato (il 30 settembre scorso) davanti alla Marelli di Crevalcore, in provincia di Bologna, e la Fiom Cgil lo aveva dichiarato “ospite non gradito” ordinando ai lavoratori di lasciarlo solo. Calenda ha messo nel mirino proprio Landini giudicandolo troppo accondiscendente con quel che accade nell’universo degli eredi Agnelli e insinuando che ciò sia la conseguenza di come Repubblica lo ha blandito e coccolato fino a battezzarlo vera alternativa alla destra. Ecco perché “in una intervista alla Repubblica il segretario della Cgil parla della crisi del settore automotive senza mai nominare Stellantis”. La lettura politica è evidente: il sostegno del quotidiano posseduto da John Elkann è fondamentale per le nuove ambizioni del segretario della Cgil. Calenda non molla la presa e rievoca gli anni dell’epica battaglia contro Marchionne: ricordate la campagna di Landini, allora capo dei metalmeccanici, ricordate il referendum a Pomigliano d’Arco? Una clamorosa sconfitta, mai accettata; nessun ripensamento, nessuna onesta ammissione che i lavoratori avevano scelto “il padrone”, nessun chiedersi il perché. Mai. Era accaduto con la scala mobile nel 1985 quando Landini era un giovane quadro in erba, era successo alla Piaggio nel 2009 quando già guidava la Fiom. In tal caso si trattava del contratto integrativo; la Fiom non firmò, chiedeva più soldi, ma accettò di andare al referendum tra i lavoratori che dissero sì e costrinsero il sindacato della Cgil ad accettare l’intesa. A Pomigliano invece Landini fece il gran rifiuto, non riconobbe la legittimità di un referendum sul trattamento di malattia e lo sciopero. Finì con il 62 per cento di sì all’accordo siglato da Fim e Uilm. Chissà cosa potrebbe accadere con l’articolo 18 se mai si arriverà a una consultazione popolare. Avanti di sconfitta in sconfitta, l’importante è non cambiare mai idea.

Calenda e Landini sono come il diavolo e l’acqua santa (ai lettori scegliere l’abbinamento) e noi stiamo raccontando uno scontro privato che finisce in politica? Non proprio, semmai è l’ultima stoccata di un lungo duello conradiano tra uomini e tra culture. La Marelli è un gruppo dallo storico blasone che produce componenti ad alta tecnologia per i veicoli. Non archeologia industriale, dunque, al contrario. Già in passato la Fiat ha ceduto prodotti e licenze d’avanguardia, come il common rail alla Bosch. E ci ricade sempre pur di “far cassa”. Al salone di Ginevra, il 7 marzo 2018, ai giornalisti che gli chiedevano sulle sorti della Magneti Marelli, Marchionne rispose: “Non la venderò mai”. Ciò non vuol dire che intendeva tenerla in Fca; la sua idea era separarla, ma non come fatto con la Ferrari. “Voglio darla a tutti gli azionisti”, disse senza spiegare in che modo, solo che l’azionista principale, la Exor di John Elkann, non la voleva. Marchionne era già malato, da un anno combatteva contro un sarcoma, circondato dal massimo riserbo. Morì il 25 luglio. L’anno successivo Exor confermava la sua scelta di mollare Marelli cedendola per 6,2 miliardi di euro alla società giapponese di componentistica CK Hutchison Holdings controllata dal fondo KKR che l’aveva rilevata nel 2015 dalla Nissan. Landini era già segretario della Cgil in pectore (il suo mandato partiva dal 24 gennaio 2019); dopo aver lasciato la Fiom nel 2017, era stato nella segreteria confederale e si era occupato di elettrodomestici e veicoli a due ruote, incrociando il brando con Electrolux e Piaggio. I rapporti con Marchionne si erano allentati anche se non raffreddati. In tutti gli anni in cui lo aveva combattuto non s’erano mai incontrati faccia a faccia. “Non parlo inglese”, celiava Landini. Il fatto è che il manager parlava italiano, ma il sindacalista non lo capiva e non lo voleva ascoltare. 

Anni dopo, Landini ha negato che ci fosse astio, quella di Pomigliano era “una battaglia esclusivamente di contenuti e relazioni industriali”. Ma non ha mai ammesso che la nuova organizzazione del lavoro ha rilanciato la fabbrica dedicata al grande filosofo napoletano Giambattista Vico. Nel 2012 è stata premiata come migliore d’Europa, nel 2013 sono arrivati i vertici della Volkswagen per studiare i processi di automazione e l’efficienza produttiva, ancor oggi è lo stabilimento che va meglio, non ci sono esuberi, almeno per il momento, grazie all’Alfa Tonale, alla Panda e alla Dodge. Nessuno chiede autodafé, né autocritiche staliniane, ma quanto meno una riflessione oggettiva. Landini insiste nel sostenere che Marchionne non ha vinto il referendum perché la Fiom non ha partecipato alla stipula dell’accordo. Ma oggi si può riconoscere senza acrimonia che è stata una battaglia inutile e sbagliata, per di più ha lacerato i rapporti con la Fim Cisl e la Uilm, condannati come sindacati gialli, se non proprio servi del padrone. Una ferita che non s’è mai risanata, anzi è stata riproposta a livello confederale, soprattutto con la Cisl, dal salario minimo per legge alla protesta contro la manovra economica del governo.

È vero l’atto di accusa? La risposta è come sempre nel fattore umano. Da un lato il carattere forgiato dalla vita stessa, dall’altra le ambizioni. Testardo più che tenace, ruvido e imperioso, anche Landini è segnato dalla sindrome dell’underdog. La Fiom non era già più quella di Bruno Trentin, intellettuale poliglotta votato al sindacato, né la Cgil quella del carismatico Luciano Lama, ma non era facile immaginare una scalata tanto determinata e per molti versi inattesa. Landini è comunista? “Non lo so” aveva risposto nel 2010 a Roberto Mania che lo aveva intervistato per Repubblica, ricordando che il padre lo era, comunista e partigiano, ma lui non aveva mai letto Karl Marx. Era stato iscritto al Pci fino al 1991, poi si era dichiarato indipendente di sinistra. Aveva sostituito con una piattaforma più radicale Susanna Camusso che proveniva da una formazione a sinistra del Partito comunista italiano, il Movimento lavoratori per il Socialismo, figlio del Movimento studentesco milanese e confluito dopo vita breve, dal 1976 al 1981, nel Pdup. Landini, per quanto radicale, non è mai stato un vero gruppettaro. Aveva 24 anni quando ha cominciato a militare nella Fiom partendo dalla base, da una cooperativa che produce impianti elettrici e di riscaldamento, la Ceti, per entrare nella federazione sindacale di Reggio Emilia. Arrivava da San Polo d’Enza, ma è nato, nel 1961, a Castelnovo ne’ Monti. Famiglia operaia, il padre Guerrino faceva il cantoniere, la madre al focolare per badare ai cinque figli. Studi pochi, perché bisognava portare a casa la pagnotta. Landini frequenta i primi due anni per diventare geometra, poi abbandona e comincia a lavorare come apprendista saldatore in un’azienda metalmeccanica. Prende la tessera comunista e quella fiommina, cominciando la sua nuova carriera. Oggi non ha più affiliazioni politiche precise, finito il Pci s’è avvicinato ai Ds, poi è stato attratto da Nichi Vendola e dalla sua Rifondazione comunista, alla quale aveva aderito anche Sergio Garavini, sindacalista rigido, ma sofisticato, figlio di un industriale torinese. Il Partito democratico no, troppo moderato. Un avversario, questo sì davvero odiato, è stato Matteo Renzi, condannato al rogo ideologico per il Jobs Act. Anche in questo caso un’impuntatura ideologica, sommata alla rocciosità del carattere, ha impedito a Landini  di riconoscere l’evidenza: un milione di posti di lavoro in più nei due anni successivi, altrettanti dopo la pandemia. Alla Fiom i suoi maestri sono stati Gianni Rinaldini e Claudio Sabbatini, ideologi intransigenti che hanno emarginato e neutralizzato la componente laburista della Fiom, da sempre molto consistente. 

E adesso dov’altro vuole arrivare il segretario della Cgil, con le sue t-shirt bianche che spuntano dal colletto aperto della camicia, un emblema proletario quasi come i maglioni di Marchionne? Senza dubbio è una figura ben diversa da Elly Schlein, persino opposta sul piano personale. Lui legge gialli, ascolta Ligabue, tifa Reggiana dopo aver rinnegato l’amore giovanile per il Milan (con Rivera sì, mai con Berlusconi), parla in modo semplice e diretto con cadenza emiliana, invece delle circonlocuzioni di Elly espresse in un italiano forbito e senza localismi. Chi aspira a una sinistra verace che torni al passato vede in Landini il suo leader. Niente americanismi. Niente campagne liberal. Diritti sì, ma prima quelli del lavoro. Chi non ha abbandonato il sogno veltroniano di una grande sinistra moderna ha scelto Schlein, ma rischia di perdersi in tanto fumo con poco arrosto. Un aspetto li accomuna e rende più accesa la competizione tra loro: entrambi bucano lo schermo. E oggi più che mai l’immagine è tutto. Quanto alla guerra dell’auto, andrà avanti comunque. La rivoluzione elettrica, lasciata a se stessa, non farà prigionieri, ovunque i sindacati si battono per ammortizzare l’urto, ma sanno che il luddismo non ha mai fatto gli interessi dei lavoratori. E la Cgil di Landini? Il suo motto è resistere, resistere, resistere. Fino alla sconfitta finale?

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