processo a Tavares

Il motore termico è in crisi ma anche l'auto elettrica non si sente tanto bene

Stefano Cingolani

In Italia le vendite delle auto languono e le fabbriche sono troppe se non si aprono le porte ad altri produttori. Stellantis verso un disimpegno? Un’indagine

Osare in inglese si dice to dare e Carlos Tavares quando lo scorso anno ha lanciato l’ambizioso piano Dare Forward 2030 ha osato senza dubbio molto, ai limiti dell’azzardo; il capo del gruppo Stellantis si è spinto avanti, forse troppo, progettando di far uscire dalle sue fabbriche entro sei anni il cento per cento di auto elettriche in Europa e il 50 per cento in America. Un’ambizione, una visione, un sogno? Un duro colpo l’ha dato proprio in questi giorni l’Unione europea che, passando al setaccio costi e prezzi dei principali Bev (Battery electric vehicle) sul mercato, ha scoperto che gli esemplari al di sotto dei 25 mila euro si contano sulle dita di una mano (tra questi la versione di base della 500). La domanda che si sono posti a Bruxelles è ai limiti dell’ovvio: facciamo tutta questa rivoluzione per tagliar fuori la massa dei compratori (la quota dei Bev nell’Europa occidentale è ancora il 15 per cento appena), chiediamo ai contribuenti fior di quattrini per sussidiare le auto dei ricchi? Sembra un’obiezione populista, ma se prendiamo i grandi produttori, che possono sopravvivere solo con grandi volumi, quelli che sfornano milioni e milioni di auto (quasi sei milioni parlando di Stellantis), è una domanda di puro buon senso. Non a caso Akio Toyoda, nipote del fondatore e presidente del più grande gruppo mondiale (con oltre 10 milioni di veicoli) ha detto che non ha nessuna intenzione di bruciare la sua rivoluzione, quella del motore ibrido, una innovazione assoluta, ma meno dirompente, potremmo chiamarla gentile.

La Volkswagen, numero due al mondo, si è lanciata anch’essa sull’elettrico, ma ha scelto di mantenere un rapporto equilibrato lasciando spazio non solo all’ibrido, ma alla benzina e, sia pur sempre meno, al diesel. Tesla è un’altra storia, il suo è un enorme successo imprenditoriale e tecnologico, ma resta una nicchia d’eccellenza. A meno di non pensare che l’auto ormai sia solo un bene rifugio come la Ferrari per ricchi tedeschi che si difendono dall’inflazione montante, c’è da riesaminare in modo pragmatico le scelte del prossimo futuro. 

 Il piano Stellantis approvato lo scorso anno dagli azionisti (la Exor di John Elkann con il 14,3 per cento, la famiglia Peugeot con il 7,1 che può salire fino all’8,5 per cento, BpiFrance, la banca di stato francese, con il 6,13 per cento, poi la cinese Donfeng, Amundi, fondi e persino la Banca d’Italia) rischia di essere sovradimensionato. E’ eccessivo perché, a parte i costi che si possono ridurre solo con economie di scala che ad oggi mancano, sta emergendo sempre più il lato oscuro della rivoluzione, lo stesso che individuava Sergio Marchionne il 2 ottobre 2017 durante un intervento all’Università di Trento: “Forzare l’introduzione dell’elettrico su scala globale, senza prima risolvere il problema di come produrre l’energia da fonti pulite e rinnovabili, rappresenta una minaccia all’esistenza stessa del nostro pianeta. Quella dell’elettrico è un’operazione che va fatta senza imposizioni di legge e continuando nel frattempo a sfruttare i benefici delle altre tecnologie disponibili, in modo combinato”. E’ il suo testamento, nove mesi prima della morte. Resta famosa la battuta agli americani: “Per favore non comprate la 500 E, ci perdo 14 mila dollari”. Sono passati dieci anni, ma il rischio resta. Ad esso s’aggiunge il conflitto geopolitico che ha spinto Joe Biden a escludere dagli incentivi federali i produttori cinesi, i quali hanno acquisito un enorme vantaggio in termini di costi e tecnologie (batterie, lavorazione del litio, microprocessori persino). 

Nessuna delle aziende che compongono la galassia Stellantis aveva puntato in modo consistente sul veicolo elettrico, quindi l’impatto sulla struttura produttiva, sulle fabbriche, sui lavoratori sarà ancor più dirompente. Secondo lingue malevole Carlos Tavares, l’amministratore delegato del gruppo che si muove da plenipotenziario, al mattino insieme al “café e leite” che gli ricorda l’infanzia a Lisbona, chiede il rapporto su quanti dipendenti se ne sono andati più o meno volontariamente (in Italia 45 mila, in tre anni 11 mila in meno). Il suo mantra è “frugalità”, tutto deve essere frugale anche l’ abbigliamento: ha tolto la cravatta e indossato il pullover blu girocollo sotto la giacca, insieme al volto emaciato e alla secchezza della complessione, sembra un gesuita penitente. Non fa penitenza la sua retribuzione: un assegno di 14,9 milioni di euro lo scorso anno secondo quanto dichiarato alla Sec, il watchdog di Wall Street. Se valesse ancora la regola Valletta (35 volte il salario medio di un dipendente) dovrebbe guadagnare circa un milione l’anno. Ma inutile piangere sui tempi perduti. Il piano Dare (come osare in inglese) sarà il lascito di Tavares che potrebbe chiudere la sua esperienza in anticipo rispetto al 2025. A domanda precisa Elkann ha risposto che “esiste un contratto”, come se fosse l’ennesimo allenatore della Juventus. 

 Lo stabilimento di Melfi è il perno italiano della riconversione elettrica: sarà il primo a produrre con la nuova piattaforma Stla Medium per auto di taglia media, tra queste anche la Lancia Gamma. Ci vorranno due anni se tutto va bene. E che fine faranno tutti gli altri stabilimenti? Sarà il tema dell’incontro al ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit). Oggi prende il via il tavolone con i sindacati, le regioni interessate (Abruzzo, Basilicata, Emilia, Lazio, Molise e Piemonte), oltre all’azienda e al governo. Nel 2022 in Italia si sono prodotte 473 mila 194 auto, ciò colloca l’industria nazionale all’ottavo posto in Europa (prima la Germania seguita dalla Spagna). Il ministro Adolfo Urso intende arrivare a un milione, come in Francia. Tavares s’è impegnato. Ma l’obiettivo è davvero raggiungibile solo con Stellantis o bisogna attirare anche altri produttori?

 Le vendite di auto in Italia sono ancora inferiori al 2019 (-18 per cento). Quelle elettriche toccano appena il 4 per cento contro il 15 dell’Europa occidentale. Gli impianti sono tutt’altro che saturi, anche se il 2023 è un anno di ripresa per Stellantis (+10 per cento) soprattutto grazie a Pomigliano (+31 per cento) con l’Alfa Tonale, il suv Dodge e l’intramontabile Panda che però non verrà più prodotta. La VM di Cento (Ferrara) che fabbrica motori è al 50 per cento della sua capacità, Termoli (propulsori a benzina, con 2.369 operai) trema, la produzione di cambi tradizionali (a Biella e a Mirafiori) è in via di estinzione, a Cassino (Alfa Giulia e Stelvio) non sono sicuri i 3.176 posti di lavoro nemmeno con la Maserati Grecale. A Mirafiori la produzione di 500 E si è fermata per due settimane a novembre mentre la Maserati è scesa da 55 mila a settemila vetture. Melfi che aveva subìto un crollo di quasi il 30 per cento è legato al successo della nuova piattaforma e dei suoi quattro modelli. Con precisione da ingegnere, Elkann in persona ha presentato i piani del gruppo. “Melfi diventerà il centro della produzione di auto elettriche di media taglia. Cassino sarà specializzata nel segmento delle elettriche più grandi. Termoli è impegnata in una riconversione fondamentale: dalla produzione di motori termici a gigafactory, un investimento di più di 2 miliardi di euro. A Mirafiori prevediamo di realizzare anche un impianto per trasmissioni elettriche, grazie alla nostra joint venture con Punch Powertrain”. Ma alla prima grande fabbrica fordista è stata affidata anche un’altra missione: diventare un hub del riciclo, i critici parlano già di un centro rottami, evocando incubi da Mad Max; l’idea in realtà è molto trendy, siamo in epoca di economia circolare, però il messaggio comunicativo non è passato indenne alla prova del sarcasmo. 

Nella classifica mondiale dell’auto, oggi Stellantis è al quinto posto. Ben più lontano il gruppo franco-italiano se prendiamo la sua capitalizzazione. Tesla vale in Borsa la cifra stratosferica di 633 miliardi di dollari,  uscendo dalla bolla troviamo Toyota con 194 miliardi, Porsche con 115 miliardi (il doppio della Ferrari), la cinese Byd a 102 miliardi, seguono Mercedes e le altre. Stellantis è nona, ma può almeno vantarsi di superare Ford e General Motors. Per tenere botta occorre aumentare produzione e valore di mercato, una risalita non facile. Bisogna capire la fatica di Tavares, il quale, però, ha commesso una serie di errori diplomatici o di comunicazione che dir si voglia. Il primo è la lettera ai 15 mila dipendenti chiedendo loro di andarsene per cercare altrove il proprio pane. Ne seguono altri non meno urticanti. Il Lingotto venduto, la fabbrica di Grugliasco (Maserati) su Immobiliare.it, non c’è più la strategica Marelli (valvole elettriche), ceduta ai giapponesi sostenuti dal fondo KKR, invece di scorporarla e quotarla in Borsa come promesso da Marchionne. La italianissima 600 E (affidata negli spot a Leonardo Di Caprio) è prodotta in Polonia su piattaforma Peugeot con fornitori francesi. La Topolino verrà assemblata in Marocco nello stabilimento della Psa. La nuova Panda elettrica in Serbia. C’è della logica? Sì, smantellare pezzo dopo pezzo quel che resta della Fiat e lasciare a tappe l’Italia, denuncia Carlo Calenda. “Stiamo assistendo alla scomparsa del sistema automotive nel silenzio generale”,  ha tuonato a Cassino. 

Le cose non vanno molto bene oltralpe dove si prevedono 3.000 esuberi e la chiusura di un punto vendita su cinque, ma Emmanuel Macron ha chiesto a Tavares di non tagliare, ne va del futuro dello stesso presidente. E la prima gigafactory (in joint venture con la Total e la Mercedes) a Billy-Berclau nel Pas-de-Calais, è stata inaugurata sei mesi fa con squilli di fanfare. Termoli vedrà la luce forse nel 2029.

“Faccio le auto dove più conviene”, proclama Tavares. Giusto, è il teorema di Ricardo, intanto ai governi chiede aiuti, ai sindacati la massima moderazione e all’Unione europea di rivedere Euro 7, il regolamento sui limiti delle emissioni. I manager di Stellantis sanno meglio di chiunque altro come stanno davvero le cose, ma è chiaro che gli stabilimenti italiani sono troppi e senza dubbio troppo grandi. L’industria automobilistica è sovvenzionata più di altre grazie al suo impatto sociale e al peso sul prodotto lordo italiano (10,9 per cento, oltre 207 miliardi lo scorso anno, circa 90 nella componentistica). Tuttavia occorre trovare soluzioni meno assistenziali, saturando le fabbriche con altri produttori. La Spagna offre un esempio interessante e lo racconteremo nel corso del nostro viaggio. Ma già la Ford Ka è stata prodotta a Tychy in Polonia nell’impianto Fiat con motori della casa torinese. Oggi è ancor più facile moltiplicare queste esperienze produttive se si adottano le piattaforme modulari dove le auto vengono composte quasi fossero cubetti Lego, come ha fatto già la Volkswagen. Spiega Josef Nierling, amministratore delegato della Porsche Consulting in Italia, che il vero salto per affrontare la nuova onda dell’innovazione e la concorrenza asiatica è la collaborazione tra i produttori, una strada che interessa molto ai costruttori tedeschi.

Dove va Stellantis dipende anche da dove andrà Exor. E’ a tutti gli effetti una società finanziaria multinazionale e lo sarà ancor più in futuro. Spende nella moda, investe nella sanità, si tiene stretta la Ferrari, sostiene la Juventus (per quanto ancora?) e la Repubblica, porta l’Economist come il fiore all’occhiello. John Elkann è un cosmopolita, per lui Torino resta un ricordo giovanile, tra Parigi, Londra, Amsterdam, New York, la sua patria è il mondo intero come cantavano gli anarchici a Lugano sulle rive del lago. Chi può mettergli le ganasce? Chi pensa male e a volte ci azzecca, si chiede: come mai il segretario della Cgil Maurizio Landini che quando era capo della Fiom ha ingaggiato una guerra (e l’ha persa) contro Marchionne, adesso non nomina mai  Stellantis? Non sarà perché Exor possiede il giornale campione della lotta alla nuova destra montante, che lo ha di fatto incoronato come vero capo dell’opposizione? Ma c’è un altro “fattore umano” che determina e raggela il confronto: Giorgia Meloni e John Elkann sono separati da una differenza non solo politica, ma culturale, sociale, caratteriale. Un aspetto li accomuna al di là di tutto: entrambi non intendono più essere sottovalutati, basta con il nipote dell’Avvocato o l’eterna underdog. Bisogna tenerne conto tutti, giornalisti, ministri, sindacati e lavoratori della Stellantis.

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