(foto di Dan Gold su Unsplash)

dopo anni di perdite

Toh, Uber fa il pieno di utili, e distribuisce 15 miliardi ai suoi guidatori (ed è pure di destra)

Michele Masneri

Mentre in Italia si studiano incentivi e compensazioni per i tassisti, in America la compagnia che offre corse mette a segno il primo bilancio positivo della sua storia

San Francisco. Mentre in Italia si studiano incentivi, compensazioni, assistenze morali e materiali per venire incontro ai poveri tassisti non liberi di fatturare esentasse e di non andare a caricare i noiosi turisti alla stazione (presto ci sarà il bonus psicologo per i tassisti traumatizzati dall’overtourism) in America Uber mette a segno il primo bilancio positivo della sua storia. Non che andasse male, il colosso inventato nel 2009, epoca d’oro della Silicon Valley, ma non aveva mai raggiunto un attivo di bilancio come succede anche nelle migliori famiglie per complicate dinamiche aziendalesche. Adesso sì: proprio ieri, mentre a Roma il ministro delle Imprese Urso imprecava contro “le multinazionali” il gruppo sanfranciscano simbolo di efficienza nel mondo e appunto delle temute multinazionali in alcuni paesi sottosviluppati, ha registrato un utile netto di 394 milioni di dollari. Uber multinazionale lo è proprio, nel senso migliore del termine. Il suo amministratore delegato Dara Khosrowshahi è di origine iraniana, e di tutte le nazionalità sono i guidatori che guidano le sue auto.

 

Accomodarsi in un Uber significa subito aver a che fare col melting pot e con l’integrazione: negli Stati Uniti si stima che guidino per Uber e le sue concorrenti (Lyft prima fra tutti) circa 1,7 milioni di persone. E il dato più impressionante uscito dalla trimestrale di Uber è proprio negli stipendi: 15 miliardi di dollari in tre mesi pagati ai suoi guidatori in tutto il mondo.  In America guidare Uber è da anni una specie di ammortizzatore sociale, di reddito di cittadinanza, specialmente per gli immigrati.Basta una macchina, una patente, una fedina penale pulita, ovviamente un permesso di soggiorno, e vai. Guidi e guadagni, decidi tu come e quando, senza schiavitù e ovviamente pagando le tasse (tutto è tracciato e elettronico). Non bisogna essere di destra o di sinistra per capirne i vantaggi (tra l’altro, Uber è percepita di destra, trumpiana, mentre i più riflessivi usano Lyft). 


Uber però ecomomicamente va meglio, è raddoppiata in Borsa quest’ anno perché ultimamente ha pure abbassato i prezzi, e riesci a spendere 7/8 dollari per una decina di minuti di tragitto. Solo in Italia i governi van dietro ai tassinari astuti secondo cui Uber costa tanto (ma perché parlano del sistema con le berlinone scure con autista, che nessuno prende). L’Uber popolare è quello che conta, l’Uber popolare è entrato tra i costumi e le grandi invenzioni americane, come il cinema e il baseball e il motel. Fa un gran servizio e costa poco. Gli americani tra l’altro avran tanti difetti ma non gli piace fare  teatro come da noi, son gente pratica. Han capito da tempo che, da quando c’è il Gps, non serve un premio Nobel per guidare una macchina. Da quando esistono i telefonini con le mappe, per guidare un’auto, basta avere un’auto, appunto, tenerla mediamente pulita, sterzare quando il Gps ti dice di sterzare, fermarsi quando il Gps ti dice di fermarti. Le licenze, i “medallion” c’erano anche qui, qualche anziano se lo ricorda, come i fax e i vhs. Valevano tantissimo, come le prime carrozze e i monopoli delle ferrovie. Adesso stanno nei musei. Adesso i pochi taxi che circolano sono fotografati come attrazioni turistiche, ma nessuno se n’è preso a male. Non c’è come da noi quel feticismo per “la licenza”, dopo la licenza elementare e quella media e quella universitaria. Certo, spiace a tutti fare un investimento sbagliato (ma pure noi poveri scriventi abbiam preso lauree e intrapreso carriere un tempo promettenti e oggi impoverite, ma nessuno ci compensa. E i produttori di fax, e di Vhs, e i liutai? Se scendiamo in piazza, oltretutto, ci corcano). 

 

Ma facendo i conti della serva e considerando i 300 milioni di americani contro i 60 che popolano l’Italia, dunque dividendo l’1,7 milioni di drivers americani per cinque e presumendo una simile predisposizione alla guida anche da noi, ci si troverebbe ad avere un bel gruppetto di guidatori, circa 340 mila, con potenziali gettiti e voti forse superiori a quelli dei tassisti. Mica male anche in vista dei giubilei e degli overtourism e dei tanti rimasti privi di sussidi ma magari appassionati di motori e autodotati. Adesso però come al solito i cattivi americani che guardano sempre avanti sono elettrizzati dalla nuova “cosa”, le auto senza conducente. Ormai guidando a San Francisco, quando sei fermo a uno stop e ti guardi intorno, una su tre è un’auto con nessuno a bordo. Sono il futuro del trasporto, le stanno ancora testando, fanno qualche incidente, ma meno degli umani (non bevono e non si drogano, e non votano nemmeno per fortuna), ma sono già lì. E guardi il povero uberista che ha già capito che il prossimo tassinaro sarà lui, però magari si troverà un altro lavoro (se però il progetto per l’Italia è quello di creare un parco a tema anni Cinquanta, no Uber, no Pos, no hamburger sintetici, only famiglia tradizionale, bebè a km zero e tassinari che ti dicono ‘a sventola, facendoti attendere nella piazzola accaldata, allora se è un progetto di sistema con ricadute turistiche tematiche, se c’è un business plan ci rimangiamo tutto, avete ragione voi, viva il medallion, vabbè).  

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).