Il ceo di AstraZeneca Tom Keith-Roach (Christopher Furlong / Getty Images)

L'ombrello geopolitico

Da AstraZeneca a Sequoia. Come fare affari con la Cina? Citofonare Hong Kong

Stefano Cingolani

La società californiana di venture capital così come quella di biofarmaceutica si sono quotate separatamente portando alcune filiali fuori dal confine cinese. L’occidente dovrà procedere caso per caso proteggendo i settori più sensibili

La nuova parola d’ordine è de-risking non più decoupling e l’ha lanciata dalle colonne del Financial Times il capo della Raytheon, il colosso americano di radar e missili (Tomahawk e Patriot i più noti) . “Se dovessimo lasciare la Cina – ha spiegato Greg Hayes – ci vorrebbero molti molti anni per ristabilire la nostra capacità produttiva sia quella domestica sia quella in paesi amici”. La Raytheon ha società in Cina, una robusta attività commerciale, circa duemila dipendenti diretti. Senza parlare di materiali e metalli rari dai quali è dipendente. Allora, la sua strategia è ridurre i rischi non la presenza industriale ed economica nel Regno di mezzo. Per aprire un ombrello geopolitico AstraZeneca ha deciso di dividersi e quotarsi separatamente a Hong Kong o a Shanghai, seguendo l’esempio di Sequoia, la società californiana di venture capital.

 

In caso di conflitto aperto e di sanzioni, verrebbero colpite solo le filiali cinesi. Coperture che sembrano poco impermeabili se scoppia la grande bufera che i big dell’industria e della finanza vorrebbero evitare. L’agenzia Bloomberg riporta che l’80 per cento delle aziende statunitensi prevede di accorciare le proprie catene di approvvigionamento in futuro. Allo stesso modo, in Europa, il 60 per cento delle aziende europee sta cercando di delocalizzare la produzione nel proprio paese d’origine o in un paese vicino entro il 2025. Eppure Apple non abbandona  la Cina, non può farlo del tutto. Elon Musk si è recato a Pechino il 30 maggio e ha dichiarato di voler crescere nel suo maggior mercato per Tesla, senza dimenticare la grande gigafactory a Shanghai. Bill Gates ha incontrato quattro giorni fa Xi Jinping che lo ha chiamato “un vecchio amico”.

 

Alla sfilata pechinese s’aggiungono Mary Barra della General Motors a fine maggio, David Solomon di Goldman Sachs, Jamie Dimon di JP Morgan, Pat Gelsinger di Intel che intanto diversifica in Israele e in Europa (Germania, Irlanda, Polonia, Italia). L’interscambio Usa-Cina ha toccato un nuovo record nel 2022 con 690 miliardi di dollari, anche se dal 2019 si sono ridotti in modo consistente gli investimenti diretti americani, più per colpa della pandemia che del braccio di ferro geopolitico. Non solo, la Cina possiede ancora una quota consistente del debito Usa in dollari: con circa 900 miliardi è il secondo detentore di titoli dopo i risparmiatori americani. A Berlino in questi giorni è in corso il settimo vertice intergovernativo tra Germania e Cina. Il cancelliere Scholz ha detto che lui è “liberale, ma non stupido”. Per il capo della Mercedes è impossibile separare l’industria tedesca dalla fabbrica mondiale: “La Germania non può tagliare i ponti”, ha dichiarato Ola Källenius. Emmanuel Macron è stato tre giorni in Cina in aprile e ha venduto più che comprato: sono stati firmati ben 18 accordi di cooperazione (energia verde, nucleare, finanza). L’Unione europea deve ancora decidere quale linea seguire, vedremo quanto sarà influente il suo “complesso militar-industriale”.

 

Business is business, ma molto dipenderà dall’esito della missione Blinken. Il segretario di stato che ieri è stato ricevuto da Xi Jinping, è andato per “capire se è possibile una reconnection”, ha dichiarato un alto funzionario americano al Financial Times. E’ una mossa tattica? Presto per deciderlo, ma molti sostengono che l’intervista di Henry Kissinger abbia scosso la diplomazia americana, almeno la corrente dei realisti oggi più forte tra i democratici che tra i repubblicani. Il centenario maestro della realpolitik ha detto all’Economist che per evitare la Terza guerra mondiale bisogna trovare il modo di riannodare i rapporti con Pechino per una convivenza pacifica e ha ricordato di quando riuscì a far incontrare Mao Zedong e Richard Nixon nel 1972. Non c’è tempo da perdere, “ci sono solo da cinque a dieci anni” prima della catastrofe. Essenziale interrogarsi sulle incertezze dell’occidente, ma forse dobbiamo guardare anche alle contraddizioni cinesi. La strategia di Xi non cambia, la sfida tecnologica è di lungo periodo, Taiwan è “parte del territorio cinese”. Tuttavia la Cina fatica ancora a riprendersi dopo il Covid-19 mentre vengono in primo piano i problemi strutturali (invecchiamento, debiti nascosti, un “socialismo di mercato” con sempre meno mercato). La ripresa è più lenta e fiacca del previsto. Il tasso d’inflazione ufficiale è inferiore a quello americano ed europeo anche perché la domanda interna stenta e la grande svolta da una economia fortemente dipendente dall’estero a una economia sempre più autosufficiente s’è impantanata.

 

Vuoi vedere che alla fine anche il memorandum sulla nuova Via della seta non è poi così pericoloso e il governo italiano ha esagerato a spaventarsi blindando la Pirelli e l’Electrolux? Se l’occidente non può sciogliere i suoi legami, lo stesso vale per la Cina. Dunque si andrà avanti caso per caso proteggendo i settori strategicamente più sensibili, non solo chip o intelligenza artificiale, ma anche farmaci d’avanguardia. La Cina non si riavvicina, la speranza è che non si allontani del tutto.

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