Il ministro delle Imprese Adolfo Urso (Ansa)

Stato e interessi

Ilva e Pirelli. Due casi per misurare gli istinti nazionalisti di Meloni & Co.

Oscar Giannino

Tanto a Taranto quanto per la multinazionale milanese c’è la fila di industriali italiani pronti ad investire. Il governo non approfitti dei contenziosi con India e Cina per immettere nuovo capitale pubblico: regolatore sì, gestore no

Modesto consiglio alla premier Giorgia Meloni, ai ministri Urso e anche Giorgetti. È il caso di prendere sul serio due grandi questioni industriali italiane le cui vicende sono in corso, e che chiedono non solo valutazioni e risposte rapide, ma anche serietà. Nel misurare bene gli interventi cui il governo è chiamato, e nell’antepore a tutto gli interessi strategici dell’industria italiana. Un elemento che purtroppo non aiuta. Si tratta di decisioni che chiamano in causa le quote rilevanti assunte in due grandi industrie italiane in un caso da una grande multinazionale indiana, e nell’altro da veicoli d’investimento cinesi che si fatica sempre più a considerare operatori di mercato, di fatto rispondono a direttive stabilite a Pechino dal regime cinese. Toccare India e Cina ha i suoi rischi: Italia ed Europa da una parte mirano a intensificare i rapporti commerciali con l’India, dall’altra a non considerare la Cina l’avversario geostrategico e commerciale come invece ritiene l’Amministrazione statunitense. Ma il tempo di decidere è oggi, e ciò spiega ancor meglio la necessità di evitare decisioni boomerang.

 

Come avrete capito, stiamo parlando innanzitutto di Ilva. La sorpresa è la volontà del gruppo Arcelor Mittal di realizzare l’impianto per l’acciaio da preridotto affidato alla Dri pubblica (Direct Reduced Iron), finanziata dallo stato con un miliardo di euro. La Dri dovrà poi realizzarne più avanti un secondo modulo: il primo è rivolto a produzione di acciaio da preridotto per una quota tra i 2 milioni e i due milioni e mezzo di tonnellate in due nuovi forni elettrici a Taranto. E l’impianto dovrà essere alimentato a idrogeno. Il secondo modulo, per la stessa capacità, è volto invece a rifornire i gruppi siderurgici italiani al fine di attenuarne la dipendenza da rottami di ferro importato. E si è già costituito un consorzio degli elettrosiderurgici italiani, che ha firmato con Dri una prima intesa.

 

La bomba lanciata da Arcelor Mittal è inesplicabile: a meno che non sia intesa solo a spingere il governo a valutare generosamente il prezzo da riconoscere agli indiani per far assumere allo stato il 60 per cento di Acciaierie d’Italia. Rimettere in discussione l’intero schema sin qui seguito è un errore capitale. Arcelor Mittal ha negli anni ridimensionato i suoi impegni a Taranto, ritardando il revamping di Afo5 e lesinando finanza: far scendere a 2,5 milioni di tonnellate la produzione Ilva rendeva meno severi i tagli delle quote di sovrapproduzione di altri impianti Mittal in Europa. La politica ha compiuto in 12 anni molti errori a Taranto. Ma ora che l’impianto a caldo è il più decarbonizzato d’Europa, non è il caso di perdere altro tempo. Urso mesi fa aveva più volte parlò dell’eventualità di far salire lo stato in posizione di controllo, superando il problema Mittal, ma con una mossa temporanea, per poi cedere le quote a siderurgici italiani e fondi d’investimento. La disponibilità dei siderurgici c’è eccome. Su Ilva non c’è più tempo da perdere.

 

La seconda vicenda riguarda il gruppo Pirelli: si attende in poche settimane la decisione che il governo ha annunciato per un suo intervento di golden power rispetto al nuovo patto di sindacato tra Camfin italiana che fra capo a Tronchetti a Sinochem cinese. I patti sottoscritti nel 2015 coi cinesi hanno funzionato bene: headquarter, tecnologie, decisioni operative e nomine restavano italiane nella casa madre. I cinesi si comportavano come investitori istituzionali. Ma da due anni la Cina è cambiata, il nuovi indirizzo di Xi è riaccentrare produzioni e catene di fornitura, sottoporre le partecipazioni estere cinesi a una rigida guida esercitata dal governo. In Pirelli gli amministratori cinesi hanno iniziato riservatamente ad avanzare proposte sempre più invasive. In più, il Dipartimento del Commercio Usa ha fatto a capire che Pirelli potrebbe essere considerata azienda a elevata partecipazione cinese, sottoposta dunque a limiti di import ed export. Anche l’Ue potrebbe assumere la stessa linea, sommando alla quota in Pirelli di Sinochem quella detenuta da altri due veicoli cinesi, Silk Road e Long March. Tre mesi fa, erano fitte le voci secondi cui Sinocherm era pronta a cedere parte rilevante delle sue quote. Voci smentite.

 

Ma anche su questa vicenda, il governo stia attento. Un conto è usare il golden power per far scendere la quote dei cinesi e scongiurare sorprese quando nel 2026 scadrà il rinnovato patto di sindacato. Ma in nessun caso il governo deve immaginare che questa sia l’occasione per mettere capitale pubblico in Pirelli: c’è la fila di investitori italiani, industriali e finanziari, per rafforzarne il controllo e la gestione nelle salde mani cui Pirelli deve il suo successo in questi anni, nonché di fondi di investimento esteri non a rischio di condizionamenti politici. Lo stato in Pirelli deve fare il regolatore, non il gestore. Non è il caso.   

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