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Le ipotesi

Cosa c'è dietro l'aumento dell'occupazione stabile e il calo del precariato

Maurizio Del Conte

Un quadro così positivo del lavoro registrato dal rapporto dell'Istat non era affatto scontato. Dietro ai numeri italiani si nasconde il clima di fiducia delle imprese, ma non solo

L’ultimo rapporto Istat sull’occupazione conferma la tendenza positiva del mercato del lavoro che, a gennaio di quest’anno, registra 35 mila occupati in più rispetto al mese precedente, con un incremento complessivo di 459 mila unità rispetto a un anno fa. Anno su anno, la crescita è stata omogenea per tutte le classi di età, mentre una differenza significativa si è registrata tra donne e uomini, con le prime che hanno segnato un +2,6 per cento contro il +1,6 degli uomini. Nel complesso, non si sono mai contati tanti occupati nel nostro paese, almeno da quando l’Istat elabora le serie storiche. Questo dato si lega, evidentemente, all’andamento pil che, nel 2022, ha registrato un +3,7 per cento. Ma un effetto così positivo sul lavoro non era affatto scontato. 

 

In passato, anche in quello più recente, abbiamo sperimentato fasi di ripresa economica non accompagnate da una altrettanto robusta crescita occupazionale. Oggi, invece, possiamo affermare che lo spettro di una “jobless recovery”, evocato da più di un commentatore, è alle spalle. Ma le buone notizie non si fermano qui. Il dato forse più interessante è quello sulla natura dei nuovi contratti di lavoro. Secondo l’ultima nota Istat, nell’arco dei dodici mesi l’occupazione è cresciuta tra i dipendenti permanenti (+3,1 per cento) e tra gli autonomi (+0,9), diminuendo tra i dipendenti a termine (-1,5). Insomma, la precarietà sta battendo in ritirata a fronte di una straordinaria avanzata di contratti di lavoro a tempo indeterminato. A ben vedere, i numeri ci mostrano un mercato del lavoro molto diverso e molto più in salute di quello raccontato nei dibattiti dei talk show, dove il catastrofismo e il decrescitismo trovano terreno fertile nella scarsa consapevolezza generale della realtà. Ciò detto, resta una domanda: come si spiega che oggi le imprese offrano più contratti di lavoro stabili, contraddicendo montagne di letteratura secondo cui, storicamente, alle fasi di ripresa del ciclo economico si associa un forte incremento di contratti precari? 

 

Non essendo ancora disponibili analisi affidabili al riguardo, si possono solo azzardare ipotesi, partendo da alcuni elementi di particolare significato. Innanzitutto, nonostante l’incertezza del quadro internazionale e dei fattori di costo, la fiducia delle imprese italiane è alta e continua a migliorare. Nel quadrimestre da ottobre a febbraio l’indice di clima di fiducia delle imprese elaborato dall’Istat è passato da 104,5 a 109,1. E quello dei consumatori segna, nello stesso periodo, un incremento ancora più marcato, passando da 90,1 a 104. La fiducia in un’evoluzione positiva degli scenari economici favorisce certamente l’offerta di contratti a tempo indeterminato. Ma c’è un altro fattore, non meno importante, che può concorrere a spiegare il fenomeno. 

 

Il mercato del lavoro italiano sta soffrendo pesantemente la scarsità di lavoro specializzato, non solo nelle alte competenze, ma anche in quelle nelle medio-basse. Secondo l’analisi Excelsior elaborata da Unioncamere e Anpal relativa al mese di febbraio, il 46,2 per cento dei profili ricercati dalle imprese è di difficile reperimento, un valore superiore di circa 6 punti percentuali rispetto a un anno fa. Ci troviamo in una fase in cui le imprese faticano non solo a trovare nuovi lavoratori, ma anche a trattenere quelli che hanno già. Tuttavia, solo una minoranza di aziende può permettersi di fare ricorso alla leva salariale. Ancora alle prese con gli alti costi delle materie prime e dell’energia, le imprese hanno poco margine per aumentare gli stipendi. E infatti, come mostrano i dati aggregati sulle retribuzioni medie, i salari salgono meno dell’inflazione. Le dinamiche contrattuali sono rigide e rallentano la reazione salariale alla variazione del costo della vita. Quasi la metà dei lavoratori è soggetta a contratti collettivi scaduti da molti mesi e i rinnovi faticano a recuperare interamente la perdita di valore dovuta all’inflazione. In questo contesto, per accaparrarsi nuovo lavoro e non farsi scappare quello esistente, le imprese si giocano la carta del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Mettono sul piatto, cioè, il valore assicurativo connesso al lavoro stabile in cambio del congelamento della retribuzione. Insomma, non potendo offrire più soldi, offrono la tranquillità del posto fisso. Ma se l’inflazione continuerà a mantenersi su valori elevati e la domanda di lavoro continuerà a essere sostenuta, c’è da aspettarsi che questo fragile equilibrio non reggerà a lungo. Perciò è urgente prepararsi ad affrontare, anche con strumenti nuovi e partecipativi, la questione salariale. Senza aspettare che sia troppo tardi.

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