(foto LaPresse)

Riformismo dimezzato

La storia ci dice che nazionalizzare Ilva è una pessima idea

Marco Leonardi

Il contenzioso infinito che si rischia di scatenare allontanando i privati dando il gigante dell’acciaio allo stato

Su molte aziende strategiche italiane incombe la tentazione della nazionalizzazione. Ma non è affatto detto che sia la soluzione migliore. Certo spesso i lavoratori e i territori sono più tranquilli se il proprietario è lo Stato ma le grosse aziende hanno bisogno della disciplina di mercato per funzionare, soprattutto se vendono prodotti in mercati altamente competitivi. Nel caso di Ilva, già il governo Conte II fu tentato dalla nazionalizzazione quando i Mittal volevano abbandonare gli impianti in seguito alla cancellazione dello scudo penale. Nel 2019 il Parlamento votò a maggioranza un emendamento che toglieva lo scudo penale agli amministratori in caso di superamento dei limiti delle emissioni e i Mittal sostennero che una tale violazione del contratto giustificasse un loro recesso. Il governo del tempo però decise che non era il caso di imbarcarsi in anni di contenziosi giudiziari ed era meglio venire a patti. In fondo i Mittal sono il più grande produttore mondiale di acciaio e sarebbe  difficile avventurarsi in un tale mercato così competitivo con una azienda nazionale in litigio con i vecchi proprietari.

 

Si fece quindi un accordo che vale tuttora perché rinnovato dal governo Draghi. L’accordo prevedeva che il pubblico attraverso Invitalia condividesse l’affitto degli impianti con Mittal. Gli impianti infatti sono in affitto  e non potrebbero essere acquistati perché sotto sequestro giudiziario. La sentenza del tribunale che conferma il sequestro è appena stata depositata. Con 400 milioni Invitalia ha acquisito il 38% della società che affitta e gestisce gli impianti e così contribuisce a determinare la direzione dell’azienda e nomina il Presidente oggi nella persona di Franco Bernabè. L’accordo prevede anche che quando le prescrizioni ambientali saranno soddisfatte e gli impianti saranno dissequestrati e quindi potranno essere venduti ad acquistarli saranno lo Stato e il privato rispettivamente al 60 e 40%. Quindi  si rovescerebbero le quote di partecipazione rispetto all’attuale situazione, con lo stato però in posizione di poter nominare non solo il presidente ma anche l’ad seppure attraverso una procedura condivisa (ad che invece oggi tocca al socio privato). In previsione dell’aumento di capitale il governo Draghi ha stanziato 1 miliardo di euro ed oggi il bivio è se comprarsi tutto subito (nazionalizzarla) o mantenere in gioco i privati trattando un aumento di capitale in cofinanziamento. Si vorrebbero  anticipare i tempi, non aspettare più la magistratura e il dissequestro degli impianti ma cambiare subito le quote di proprietà dell’azienda. Ma non sono neanche i soldi il solo problema, ma il contenzioso infinito che si rischia di scatenare. Come già ai tempi del Conte II il tema è se il contenzioso bloccasse l’azienda, e se poi lo Stato si comprasse tutto e poi, ironia della sorte, la magistratura sequestrasse nuovamente l’impianto impedendone il funzionamento?

 

Conviene trattare anche duramente ma arrivare ad un accordo. Ilva ha un piano industriale e un piano di decarbonizzazione che prevede tra le altre cose anche l’utilizzo di 1 miliardo di fondi Pnrr per un futuro di impianti ad idrogeno.  I risultati di esercizio 2021 così come riportati dal bilancio di sostenibilità ci dicono che la produzione del 2021 è aumentata a 4,1 milioni di tonnellate dai 3,4 milioni del 2020. Il 70% della produzione è destinata al mercato nazionale soprattutto del Nord ma il 30% sono importanti clienti esteri. I coils dell’Ilva soddisfano quasi l’80% della domanda nazionale. Alla fine del 2021 lo stabilimento ha prodotto utili lordi per quasi 350 milioni di euro, nonostante l’utilizzo endemico della cassa integrazione e il ritardo nel pagamento dei suoi 2100 fornitori un sesto dei quali basati in Puglia. Stiamo parlando della più grossa impresa manifatturiera d’Italia con più di 8000 dipendenti che grazie al lavoro dei suoi operai e del suo management alla fine è riuscita nel 2021 a mantenere la sua posizione nel mercato mondiale in un mercato altamente competitivo. Ilva ha anche ottenuto prestiti straordinari con garanzia SACE per 250 milioni per far fronte alla carenza di liquidità.

Certo il costo esorbitante dell’energia è una difficoltà che mette a repentaglio già da subito la produzione. Ma sarebbe meglio con un impianto nazionalizzato? No, per governare un impianto di queste dimensioni serve un socio industriale forte che creda fino in fondo nel rilancio dell’acciaieria. Il problema del bilancio di Taranto è un problema di competitività della produzione di tutto l’acciaio europeo nel confronto con i cinesi e con gli indiani. Più ancora che di Aiuti di Stato, che possono servire solo nel breve periodo, alla fine è un problema di “carbon border adjustment tax” per favorire strutturalmente il processo di decarbonizzazione della produzione di acciaio. In questo senso è da salutare con favore il fatto che proprio adesso gli stati membri e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo su questa tassa, la “Cbam” appunto, acronimo che sta per "meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera", una tassa aggiuntiva che le industrie extra-Ue dovranno pagare per esportare in Europa e che sarà parametrata alla Co2 emessa per realizzare i loro prodotti. 

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