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Le sanzioni alla Russia stanno funzionando? Un bilancio provvisorio

Luciano Capone

Dopo sei mesi, l'impatto negativo è inferiore a quanto le stesse autorità russe prevedevano. Mosca ha reagito bene, ma sta subendo una recessione più profonda di qualsiasi paese europeo, con effetti negativi che dureranno a lungo

Nel suo ultimo numero l’Economist si è chiesto, a sei mesi dall’invasione dell’Ucraina, se le sanzioni occidentali alla Russia stiano funzionando. È una domanda quella del settimanale britannico che tutti, a partire dai cittadini europei, si stanno ponendo mentre i prezzi dell’energia esplodono e l’inverno si avvicina. L’impressione, date le difficoltà dei paesi europei e l’insoddisfazione dell’opinione pubblica da un lato, e le entrate di bilancio da petrolio e gas a livelli record per il Cremlino, è che non abbiano funzionato. La realtà è invece che hanno funzionato meno di quanto prevedessero le stesse autorità russe nel breve periodo. Ma comunque hanno avuto un forte impatto negativo, e soprattutto lo avranno nel medio periodo.

 

L’economia russa, in gran parte per merito della Banca centrale russa, ha reagito bene allo choc. Subito dopo l’introduzione di un pacchetto di sanzioni senza precedenti, come il congelamento delle riserve in valuta accumulate, il consenso internazionale si attendeva un collasso del rublo e una crisi bancaria sul modello del 2008, in attesa che le banche perdessero fiducia l’una nell’altra e, a seguire, nelle imprese. Le stime iniziali, dopo l’impennata dell’inflazione oltre il 20%, prevedevano un crollo del pil del 10-15%. Ma questo non è avvenuto sia per l’impressionante rialzo dei tassi deciso dalla governatrice Elvira Nabiullina per domare l’inflazione sia per la pulizia nel settore bancario fatto dalla Banca di Russia nel decennio passato. È come se la banca centrale fosse riuscita a evitare le conseguenze di un infarto economico.

 

La Russia ha tenuto bene anche sul fronte della sua industria più importante, quella dell’oil and gas. Inizialmente, sia il vice primo ministro per l’Energia Aleksandr Novak sia il ministro delle Finanza Anton Siluanov prevedevano che la produzione di petrolio sarebbe crollata del 17%. Invece, dopo grossi problemi iniziali, la Russia ha trovato sistemi per aggirare le sanzioni e dirottare le vendite di petrolio in Asia, dove Cina e India hanno fatto incetta di greggio degli Urali seppure acquistato a sconto del 30%. Ma ciò ha consentito a Mosca di vendere gli stessi volumi e, nonostante lo sconto consistente, a valori superiori rispetto all’anno scorso visto il notevole incremento di prezzo del petrolio. Questo ha in parte attutito e in parte ritardato lo choc.

 

Le conseguenze economiche sono comunque notevoli. Il crollo del pil non sarà in doppia cifra, come si ipotizzava a marzo-aprile, ma sarà comunque del 4-6% secondo la Banca centrale russa e del 6% secondo il Fmi. Considerando che prima della guerra la Russia cresceva del 4-5%, vuol dire che nessun paese europeo, neppure i più esposti alla dipendenza dal gas russo, hanno subito una recessione di tale intensità. Ma le conseguenze delle sanzioni sono destinate a durare nel tempo. A luglio le entrate da petrolio e gas sono diminuite del 22% su base annua, soprattutto per effetto del rafforzamento del rublo (più la valuta è forte, meno rubli per ogni dollaro incassa il governo); le altre entrate escluso il settore oil and gas sono crollate del 30% e, insieme all’aumento della spesa pubblica per la guerra e le varie misure anticicliche, questo comporterà un aumento del deficit al 3%.

 

Le conseguenze più pesanti si sono viste sull’industria automobilistica, che si è quasi completamente fermata, per mancanza di componenti da importare. Lo stesso ha riguardato molti altri settori, tutti quelli che hanno bisogno di input tecnologici, anche se l’economia si sta lentamente adattando attraverso nuovi fornitori asiatici e importazioni parallele (che vorrà dire prodotti più scadenti e costosi). Le difficoltà dovrebbero aumentare a partire dal 2023, quando scatterà l’embargo europeo sul petrolio: difficilmente Cina e India potranno assorbire tutto il greggio che prima Mosca vendeva all’Europa. Ciò vorrà dire riduzione della produzione, dell’export e anche del prezzo (visto che gli acquirenti potranno strappare sconti più elevati). Ancora più complessa è la situazione per il gas, dato che la Russia non ha infrastrutture per dirottare le forniture di metano dall’Europa in Asia: il gasdotto Power of Siberia con la Cina opera al massimo della capacità e non verrà raddoppiato prima del 2030. L’Europa si renderà autonoma dal gas di Putin molto prima.

 

La Banca centrale russa prevede una recessione dell’1-4% anche nel 2023, e che la Russia non tornerà al pil del 2021 prima di sei-sette anni. Putin può usare il gas contro l’Europa quest’inverno, come sta facendo, producendo molti danni, ma è un’arma che già dal prossimo anno sarà sempre più spuntata. Mentre le sanzioni occidentali continueranno a mordere.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali