il monitoraggio

Perché è difficile lasciare Mosca per le aziende italiane

Ruggiero Montenegro

Almeno 19 imprese hanno attività di diversi tipi in Russia. Altre hanno sospeso la produzione e le consegne, mentre c'è chi ha abbandonato il paese, come Generali

C'è chi “continua a gestire gli impianti in Russia”, come il gruppo Buzzi Unicem che produce cemento e chi, per esempio Calzedonia, “continua le vendite” all'ombra del Cremlino. Altri come Assicurazioni Generali hanno invece preferito “uscire completamente” dal mercato russo. Sono gli effetti delle sanzioni e delle indicazioni dei governi occidentali, che hanno prodotto la fuga da Mosca o la limitazione delle attività.

Un panorama vario, nel quale le imprese hanno fatto scelte differenti sulla base delle specifiche sensibilità. Ne offre una istantanea il lavoro della Yale school of management, che dal 28 febbraio monitora, con aggiornamenti quotidiani, le decisioni di oltre mille aziende che lavorano – o lavoravano – in Russia. 750 di queste infatti, avrebbero comunicato alla stessa Università di aver fermato le proprie operazioni.

Dinamiche che chiaramente derivano da svariati fattori, oltre a quello morale e umanitario: dipendono dal tipo di attività per esempio – chiudere una cementeria non è proprio la stessa cosa che chiudere un ufficio di consulenza. Così come ciascuna scelta rientra in un orizzonte più ampio, che si lega all'economia e ai rapporti dei singoli paesi con la Russia (per dare un'indicazione, nel caso dell'Italia si parla di un interscambio commerciale di oltre 20 miliardi di euro nel 2021) e ha ricadute sui mercati locali e su quelli internazionali.

È questa una premessa necessaria per considerare la lista stilata a Yale, che non tiene conto di queste contingenze specifiche. Ma d'altra parte, “il nostro obiettivo è assoluto, e qualcuno potrebbe anche dire estremo”, ha ammesso qualche giorno fa sul New York Times il professore Jeffrey Sonnenfeld, che dirige l'indagine realizzata con altri 24 ricercatori. Nell'editoriale, affermava anche come per le aziende questa rappresenti “l'occasione di tracciare un confine netto con un paese e fare la differenza”, sottolineando come il mercato debba giocare un ruolo attivo. 

 

Chi lavora ancora in Russia e in che modo


Lo studio divide in cinque categorie la aziende, da quelle che non hanno cambiato per nulla le proprie attività economiche a quelle che invece hanno fatto scelte più drastiche. Accanto ai casi già noti, come Ikea, McDonald's o i colossi dell'automotive, offre anche uno spaccato dell'Italia.

 

 

Secondo la Yale school of managment, delle 193 aziende che “stanno continuando a lavorare come al solito” in Russia, nove sono italiane: si tratta di Bucci Unicem, appunto, che in Russia ha tre cementerie e quasi 1.400 dipendenti. Ci sono aziende legate al settore moda e abbigliamento, come Giorgio Armani, Calzedonia e Diadora (attraverso rivenditori locali). Unicredit e Menarini group, ma anche De Cecco e il gruppo Cremonini per l'ambito alimentare e dei beni di prima necessità.
 

Scendendo di livello rispetto all'impegno sul territorio russo si trovano “le aziende che rinviano gli investimenti/sviluppo/marketing pianificati per il futuro mentre continuano gli affari sostanziali”: sono sei quelle che arrivano dal nostro paese, su un totale di 138 individuate dallo studio. Si va da Barilla, che ha stoppato le attività pubblicitarie e le strategie per il futuro, limitando la produzione a pasta e pane, a Campari, che allo stesso modo ha detto stop agli investimenti ma va avanti con le vendite. In questo gruppo, anche Saipem e Maire Tecnimonet, che operano nel settore energia, a Intesa San Paolo e De Longhi.

 

Scorrendo ancora il report dell'università americana, ci sono poi 120 attività che “che stanno ridimensionando alcune operazioni commerciali significative ma ne stanno proseguendo altre”. In questo caso le italiane sono quattro: c'è Enel, che al momento lavora “per sospendere gli investimenti in corso e per dismettere le attività correnti”, mentre Ferrero ha sospeso “quelle non essenziali”. Iveco ha invece fermato le consegne in Russia, ma continua con le operazioni in joint venture; Pirelli ha azzerato i prossimi investimenti e ridotto la produzione. A questo segmento, appartiene anche la International Federation of Sport Climbing - la Federazione dell'arrampicata - che ha sede a Torino e ha sospeso gli eventi e la partecipazione delle squadre russe alle competizioni.

 

Diversa è stata la scelta di altre 390 compagnie, che hanno “ridotto temporaneamente la maggior parte o quasi tutte le operazioni, mantenendo aperte le opzioni di riapertura”: per l'Italia si tratta della Ferrari, le cui vendite risultano al momento sospese, di Leonardo, che secondo Yale ha imposto lo stop alle attività in joint venture ma produce ancora elicotteri, e dei marchi del lusso Prada e Moncler: attività sospese, così come ha fatto pure il gruppo Zegna, azzerando produzione e consegne per i partner russi.

 

Si arriva così all'ultimo blocco di aziende individuate dall'indagine, le 314 che hanno “bloccano completamente gli impegni russi o lasciato completamente la Russia”. Accanto a Generali, tra le italiane troviamo Eni, che ha dismesso la propria partecipazione nel gasdotto Blue stream, il brand Salvatore Ferragamo e il portale Yoox che hanno completamente fermato le spedizioni verso Mosca.

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