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Ai brand del lusso conviene congelare gli affari con il Cremlino

Fabiana Giacomotti

Può sembrare surreale, ma è molto probabile che nel risentimento verso Vladimir Putin l’impossibilità di rifornirsi a piacimento di champagne, abiti e borse da ventimila euro giocherà un ruolo non marginale

Mentre i brand di moda e abbigliamento interrompono uno dopo l’altro la consegna della merce in Russia, da H&M a Burberry a Yoox Net-à-Porter che, come scrivevamo ieri sul Foglio della Moda, non permette più ai clienti russi nemmeno di accedere alla propria pagina online (“l’adempimento di tutti gli ordini è stato sospeso fino ad aggiornamenti futuri”), nell’ultima settimana le vendite di Rolex e di Bvlgari a Mosca a San Pietroburgo hanno subìto una forte accelerazione, insieme con quelle di tutti i gioiellieri e i produttori di orologi, brand italiani compresi. A Bloomberg che chiedeva informazioni, il ceo della maison romana del gruppo Lvmh, Jean Christophe Babin, ha risposto di non sapere fino a quando durerà questa impennata, visto che le restrizioni in corso sullo Swift rendono impossibile già da giorni rifornire le boutique di nuova merce. Crediamo però che non sarà facile approvvigionarsi di collier serpent nemmeno per i russi che vivono a Londra o alle Bahamas: per gli oligarchi ormai ampiamente avvezzi a quelle che la propaganda definisce, come sempre in questi casi, le “mollezze dell’occidente”, riabituarsi alle rigidità, alle privazioni, sarà molto, ma molto difficile. Può sembrare surreale, ma è molto probabile che nel risentimento verso Vladimir Putin l’impossibilità di rifornirsi a piacimento di champagne, abiti e borse da ventimila euro, quello che gli americani definiscono “the typical russian splurge”, lo sfoggio vistosissimo e luccicante, giocherà un ruolo non marginale.

 

"Finito con il “Dolce&Gabbana prima linea”, come ti dicevano le amanti degli oligarchi alle cene della moda per sottolineare che mai avrebbero indossato una linea diffusione, roba da poveri, osservando poi con una smorfia che il brillante di famiglia che sfoggiavi al dito era “piccolo e bianco”, mentre loro preferivano i diamanti pink di Harry Winston da quindici carati. A proposito, il bene rifugio. Dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina, sta succedendo quello che succede da centinaia di anni, allo scoppio di ogni rivoluzione e di ogni guerra, benché noi nati dopo la Seconda guerra mondiale e cresciuti in occidente ne avessimo letto finora solo sui libri: l’inflazione che si innesca allo scoppio di un conflitto erode patrimoni e conti in banca, e così l’oro, le pietre preziose e in particolare i gioielli diventano un bene non solo facilmente monetizzabile ma, a saper scegliere bene, anche una fonte di guadagno. Un gioiello griffato Cartier o Bvlgari può facilmente triplicare o quadruplicare il proprio valore dopo periodi di incertezza e di crisi economica. La differenza rispetto a settanta anni fa è nella reazione della moda: nel 1941 non successe sostanzialmente alcunché, business as usual per sartorie e atelier, fino a quando le restrizioni furono tali da rendere impossibile perfino la trasformazione di un paracadute di seta in un mantello. Parigi era occupata e le sfilate continuavano. A Milano e Roma, le sartorie Montorsi, che aveva vestito Edda Mussolini il giorno del suo matrimonio con Galeazzo Ciano, e a Milano Ventura, continuavano a creare una moda bellissima, anzi sempre più ricca, e a pubblicarla sui giornali e le riviste, perché “il nemico” ne restasse debitamente impressionato. Ma il sistema della moda di allora era locale, limitatissimo, riservato a pochi.

 

Quello di oggi è globale, ramificato ovunque e, nonostante lo “splurge”, meno dipendente dalla Russia di quanto si creda: per l’Italia vale circa 2 miliardi su un totale tessile abbigliamento di circa 96; per le multinazionali come Lvmh vale meno del 2 per cento del fatturato, e per Richemont meno del 3 per cento. Putin non ha arricchito un paese, ha arricchito un numero limitatissimo di persone, le stesse e le sole che non possono più comprare balocchi e profumi e ville e yacht. Insomma, per le multinazionali del lusso, ma anche per i brand più piccoli, congelare gli scambi con la Russia e dirottare grosse donazioni verso la Croce Rossa è più remunerativo, in termini di comunicazione e posizionamento sul lungo periodo, che continuare a fare affari col Cremlino. Ed è quello che stanno facendo: mezzo milione di dollari da Kering, centomila euro da Ganni, tutti i proventi delle sfilate della Fashion week milanese dalla Camera della moda, altre donazioni da Burberry, mentre lo stilista di riferimento di questi anni, il georgiano Demna Gvasalia di Balenciaga, che alla guerra nel suo paese aveva dedicato una collezione nel 2019, ha messo anche il proprio account Instagram al servizio delle informazioni su guerra, cancellando ogni informazione sulla moda.
 

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