Roma, protesta delle guide turistiche al Pantheon lo scorso giugno (Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Ma veramente mancano i lavoratori in Italia?

Andrea Garnero

Contro la leggenda “non si trova personale”. Il problema è serio, ma è di mercato e competenze

Ma veramente mancano i lavoratori in Italia? Nonostante quasi due milioni e mezzo di disoccupati (quindi persone che non hanno un lavoro ma che lo cercano attivamente), davvero le aziende italiane non riescono a trovare manodopera? Dopo settimane in cui il dibattito andava avanti basandosi essenzialmente sull’aneddotica con interviste a ristoratori e gestori di bagni, la scorsa settimana l’Istat ha pubblicato i dati preliminari per i mesi di aprile, maggio e giugno che non giustificano l’allarmismo ma, se letti sine ira ac studio, potrebbero aiutare una riflessione comunque urgente per il nostro paese.

 

Nelle stime Istat, nel secondo trimestre 2021 il tasso di posti vacanti al netto delle componenti stagionali si è attestato all’1,4 per cento nell’industria e all’1,6 per cento nei servizi, rispettivamente in aumento di 0,2 punti e di 0,5 rispetto al trimestre precedente. Un balzo, quindi, nei servizi, ma per tornare a un livello in linea con la situazione pre pandemica (1,3 per cento nell’industria e 1,5 nei servizi nel secondo trimestre 2019). Per altro, nei servizi, l’aumento è trainato da quelli non di mercato, quindi probabilmente dalla Sanità (ma il dettaglio non è ancora disponibile) e non tanto da ristorazione o alberghi. Inoltre, non abbiamo ancora i dati degli altri paesi, ma al primo trimestre eravamo ben al di sotto della media dell’Unione europea (1,2 per cento in Italia rispetto a 1,9 in media Ue). Infine, anche i dati sulle retribuzioni, che alcuni considerano il vero indicatore di pressione sulle imprese, non mostrano nulla di particolare (al primo trimestre 2021).

Quindi gli allarmi sull’improvvisa pigrizia degli italiani erano immotivati? Sicuramente i dati Istat non giustificano la rilevanza mediatica delle scorse settimane. Tuttavia, questo non significa che i ristoratori o gestori dei bagni intervistati dicessero il falso. L’1,3  per cento di posti vacanti nel totale dell’economia, significa pur sempre quasi 300 mila posti di lavoro che le imprese non riescono a riempire. Non è impossibile, quindi, trovare qualcuno che confermi con la propria esperienza che non si trovano lavoratori. In secondo luogo, i giornali tendono a riportare i dati Excelsior-Unioncamere che misurano le intenzioni di assunzione (che si aggirano sul milione), mentre l’Istat misura “i posti di lavoro retribuiti per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo”.

 

In ogni caso, se si guarda all’andamento dei posti vacanti nel corso degli anni, ci si rende conto che, in effetti, a parità di tasso di disoccupazione, da cinque-sei anni a questa parte è diventato un po’ più difficile per le imprese trovare lavoratori adatti (in gergo, la curva di Beveridge che rappresenta la relazione inversa tra posti vacanti e disoccupati si è spostata verso destra). Significa che il mercato del lavoro italiano è diventato meno efficiente nel far incontrare offerta e domanda di lavoro. I dati aggregati non permettono di identificare le ragioni di questo peggioramento che, però, deve interrogarci visto l’alto numero di disoccupati che abbiamo e le sfide di riallocazione legate alla transizione verde e digitale che il Piano nazionale di ripresa e resilienza intende promuovere.

Possiamo escludere, intanto, che sia (solo) colpa del reddito di cittadinanza visto che il peggioramento è cominciato nel 2014-2015, ben prima dell’arrivo di qualunque forma di reddito minimo garantito. Un’ipotesi (tutta da verificare) è che la crisi finanziaria e dei debiti sovrani di 10 anni fa, la concorrenza internazionale e incentivi come Industria 4.0 abbiano modificato la domanda di competenze da parte delle imprese a cui, però, non ha fatto seguito l’offerta. Un’altra ipotesi (ugualmente da verificare, ma a mio avviso meno rilevante) è che con l’introduzione di un sussidio contro la disoccupazione degno di questo nome (la Naspi) nel 2015, una fetta di persone che prima era costretta ad accettare qualunque lavoro per sopravvivere, sia in seguito diventata più “choosy” (non un male se questo comporta anche un salto qualitativo della struttura economica italiana che, in troppi ambiti, si accontenta ancora di lavori a basso valore aggiunto).

 

Quello che è certo è che un problema di incontro tra domanda e offerta di lavoro in Italia esiste e questo ha conseguenze concrete non solo per disoccupati e imprese, ma anche per la riuscita del Piano nazionale di ripresa e resilienza che ha al centro la transizione verde e digitale. Per questo motivo la missione numero 5 del Pnrr e in particolare i 6,6 miliardi dedicati alle politiche attive sono così importanti. Anzi, le politiche attive e la formazione dovrebbero assumere il rango di riforme abilitanti dell’intero Pnrr, al pari livello delle semplificazioni e della concorrenza. Senza infrastrutture adeguate per far incontrare lavoratori e imprese, l’esito dei miliardi investiti è a rischio.

 

Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente personali.

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