Vittorio Colao, chiamato a guidare la task force che dovrà gestire la fase 2 (foto LaPresse)

Criteri per evitare che la fase 2 si trasformi nel caos

Luigi Guiso e Matteo Paradisi

Un piano di riapertura deve dare priorità a settori con più elevato beneficio economico e con minor rischio per i lavoratori. A parità di altre circostanze, bisognerebbe riaprire le attività con elevata centralità e alto contenuto di export

La task force da poco nominata dal governo per delineare una strategia di riapertura delle attività produttive soggette a blocco ha davanti un compito arduo: trovare un ragionevole bilanciamento tra la ripartenza delle attività economiche e la protezione della salute dei lavoratori coinvolti, evitando al contempo la ripresa della catena dei contagi. Il difficile compito richiede un intervento su diversi fronti e, data la complessità, non si presta ad un esclusivo approccio “dall’alto”. La protezione dei lavoratori richiede interventi specifici che variano a seconda dell’impresa e del settore e per i quali la conoscenza dei sindacati e delle organizzazioni imprenditoriali è fondamentale. I protocolli d’intesa, come discusso da Marco Bentivogli su questo giornale (6 Aprile), sono verosimilmente lo strumento corretto.

 

Da soli però non bastano. Il controllo della dinamica dei contagi impone che sia sviluppata e potenziata una strategia per identificare e isolare i casi positivi e che la ripresa produttiva sia graduale. Graduale per ridurre i rischi di propagazione del virus nella fase di uscita dal lockdown; per capire ciò che funziona e non funziona ed eventualmente correggerlo; per dare tempo alle imprese di riorganizzare le loro strutture interne e renderle compatibili con i necessari requisiti di sicurezza dei lavoratori. Se la ripartenza deve essere graduale, da dove iniziare? Quali criteri dovrebbero ispirare la riapertura dei settori soggetti a lockdown? La soluzione di questo problema non può essere affidata alle singole imprese o settori – tutti vogliono riaprire e hanno interesse a farlo prima possibile. Senza un piano il rispetto della gradualità verrebbe meno e con esso la possibilità di contenere la propagazione del virus.

  

Occorre un approccio che stabilisca delle priorità, con l’obiettivo di rendere massimo il beneficio economico della ripresa produttiva, minimizzando i rischi di contagio per i lavoratori e le comunità. Riguardo al beneficio economico, alcuni settori hanno più peso nel processo produttivo: sono più centrali, ad esempio perché ne alimentano molti altri. Per alcuni settori invece il costo di un lockdown protratto è molto elevato perché rischiano di perdere la rete di clientela permanentemente. Questi sono i settori che servono il mercato internazionale: un’assenza prolungata dal mercato, nonostante il calo della domanda estera, induce i clienti a cercare sostituti per le forniture. A parità di altre circostanze, bisognerebbe riaprire le attività con elevata centralità e alto contenuto di export. I settori differiscono anche sul fronte del rischio di contagio per almeno due aspetti che riflettono le specificità delle mansioni svolte dai loro dipendenti: la distanza fisica da colleghi o clienti che le mansioni richiedono; la possibilità di eseguire il lavoro da casa (telelavoro). Un piano di riapertura deve dare priorità a settori con più elevato beneficio economico e con minor rischio per i lavoratori. Il grafico è un esempio di come rilevanza economia e rischio si legano per i diversi settori della nostra economia.

 

 

In alto a sinistra si collocano i settori ad alta vocazione per l’export e con basso rischio legato alla vicinanza fisica richiesta dalle mansioni svolte dai loro dipendenti (quest’ultima, oltre a dipendere dalla natura delle mansioni può essere oggetto dei protocolli d’intesa tra sindacati e imprese). Tra questi settori vi sono, ad esempio, il tessile, il farmaceutico e la produzione di macchinari. Una parte di queste attività è stata sospesa per effetto del DPCM del 25 marzo e proprio da queste potrebbe partire un piano di graduale riapertura.

 

Una simile analisi condotta sulla base del valore aggiunto e della centralità dei settori nel processo produttivo porta agli stessi risultati: la riattivazione produttiva all’inizio della cosiddetta fase due dovrebbe iniziare dai tanti settori ad alto valore aggiunto, elevata centralità e basso rischio. Allo stesso tempo, altre attività richiedono mansioni che si possono svolgere in telelavoro e potrebbero avere precedenza nella riapertura. Un’accurata strategia permette quindi di riattivare l’economia secondo criteri di efficienza e di difesa della salute dei lavoratori. I tecnici delle nostre istituzioni all’Istat o in Banca d’Italia hanno tutte le informazioni per assistere la task force nel predisporla.

 

Un altro aspetto non va tuttavia trascurato: la chiusura decisa dal DPCM del 25 marzo ha colpito in maniera asimmetrica le diverse fasce di reddito. La probabilità di essere soggetti a lockdown e non poter lavorare è quasi doppia per i lavoratori con i salari più bassi rispetto ai lavoratori con salario nel quartile più alto. I lavoratori con salario basso sono inoltre più numerosi nei settori a basso valore aggiunto o bassa vocazione all’export. Una strategia di riapertura che dia priorità a valore aggiunto e export porterebbe quindi maggiori benefici a lavoratori ad alto salario. Per questo motivo, vanno contestualmente pensate misure in grado di contenere la perdita di salario e occupazione per le fasce più deboli della popolazione, in attesa che il piano di riapertura coinvolga tutti i settori.

Senza un piano di riapertura basato su un ordine di priorità di questo tipo, la ripresa produttiva sarebbe caotica. Sarebbe dettata dal potere di contrattazione delle singole imprese o settori e dal peso politico delle singole regioni. La contrattazione e l’inevitabile necessità di trovare un compromesso farebbero perdere tempo prezioso, aggravando il già ingente costo economico della pandemia. 

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