Palazzo Reale a Torino in un'immagine scattata lo scorso 19 marzo (foto LaPresse)

Con il lockdown il Piemonte ha perso 10 miliardi al mese

Mariarosaria Marchesano

Ravanelli, presidente Confindustria regionale e capo del gruppo Mirato, dice che il sistema produttivo è pronto a ripartire con il resto d'Italia mettendo la sicurezza al primo posto: “Lavorare nelle aziende sarà più sicuro che andare al supermercato”

Milano. Il Piemonte potrebbe non ripartire il 4 maggio stando ai dati pubblicati dall’Osservatorio nazionale sulla Salute diretto da Walter Ricciardi che ipotizza la data del 21 maggio come quella in cui saranno azzerati i contagi, che dall’inizio della pandemia hanno superato in questa regione quota 20.000 con un ritmo che negli ultimi giorni è rallentato molto meno che altrove. Il Piemonte - sempre stando ai dati dell'Osservatorio - è messo peggio del Lazio (12 maggio) e della Campania (9 maggio), ma molto meglio di Toscana (30 maggio), Marche (27 giugno) e Lombardia (28 giugno), ed è al pari del Veneto (21 maggio). Sebbene le valutazioni di Ricciardi non abbiano lo scopo di fissare un calendario differenziato di riaperture ma di fornire un’indicazione sulla fine dell’emergenza Covid-19 a seconda dei territori, è chiaro che potrebbero influenzare le decisioni del governo.

 

Ma è proprio questo approccio basato sull’attesa che tutto finisca prima di tornare a produrre a lasciare perplesso Fabio Ravanelli, presidente di Confindustria Piemonte e patron del gruppo Mirato: “Il sistema industriale della nostra regione sta perdendo 10 miliardi al mese, con poco meno del 50 per cento delle aziende che sono ancora chiuse – dice l’imprenditore al Foglio - Il Piemonte è pronto a ripartire con tutta l’Italia se si sposta il focus dalle filiere produttive alle condizioni di sicurezza all’interno delle imprese. Il messaggio che dovrebbe passare è che lavorare in azienda è più sicuro che andare al supermercato”. Ravanelli ha sperimentato in prima persona che cosa vuol dire organizzare in pochi giorni una produzione a prova di Covid. Infatti la Mirato, che produce saponi, deodoranti, gel igienizzanti con marchi commerciali anche molto noti – 500 dipendenti e 230 milioni di fatturato – non ha mai abbassato la saracinesca.

 

La nostra attività fa parte dei beni essenziali e questo ci ha dato la possibilità di sperimentare da subito un’organizzazione basata sull’ 80-90 per cento di impiegati in smart working e produzione divisa su due turni. Ammetto, all’inizio i lavoratori erano preoccupati, qualcuno non è venuto al lavoro per qualche giorno, ma poi hanno acquistato fiducia quando hanno visto com’era il livello di sicurezza garantito dall’azienda e cioè massimo come dimostra il fatto che finora non abbiamo avuto neanche un contagiato. Per questo dico che il criterio di selezione basato sui settori produttivi – cioè sui codici Ateco – è inadeguato e che bisogna adottare criteri oggettivi”. Facile da dirsi per un’impresa come la Mirato che ha avuto la fortuna di non subire il lockdown. E tutte le altre che aspettano le decisioni di governo e regione? Il Piemonte presenta una curva dei contagi ancora in crescita e il 4 maggio appare una data fin troppo ottimistica.

 

“Non esiste un caso Piemonte, mi lasci dire, qui l’andamento del virus è stato accertato in ritardo come ha ammesso il presidente della Regione, Cirio, perché c’erano solo due laboratori a fare i tamponi, ma poi si sono organizzati e sono stati fatti molti più test, per questo motivo la curva sale invece di scendere. Io dico che il Piemonte deve partire con tutta l’Italia, non dopo. E poi non è esatto che come gruppo Mirato non abbiano subito il lockdown”. In che senso? In Italia siamo rimasti aperti, ma la nostra filiale di Shangai che produce cosmetici ha dovuto chiudere per tre settimane circa. In compenso, però, mi sono arrivati proprio in questi giorni i dati del primo quadrimestre: il fatturato è triplicato. Era già in crescita nelle prime settimane dell’anno, ma quando a Shangai hanno riaperto dopo il blocco di febbraio c’è stato un boom di vendite. Ovviamente, anche noi avremo un impatto che è quello della diminuzione delle vendite sul mercato interno. Ma mi pare inevitabile. Quello che mi preoccupano di più sono le imprese piemontesi che fanno parte di catene produttive internazionali e che, se continueranno a restare ferme, finiranno con l'essere espulse”.