(Foto LaPresse)

Il governo svolterà solo quando metterà da parte quota 100 e Rdc

Raffaele Corvino ed Elsa Fornero

Una vera manovra espansiva non può rinunciare a eliminare i cavalli di battaglia ereditati dal precedente esecutivo

Gira e rigira, c’è il rischio di finire, anche quest’anno, con una legge di bilancio formato “spezzatino”, con vincoli che “mordono”, risorse che mancano, spese che non si riescono a ridurre e nessuna scelta che vada davvero nel senso della crescita, ciò che per un paese in declino strutturale da un paio di decenni dovrebbe essere il primo obiettivo della politica economica. Crescita vuol dire aumento del reddito (pro capite) e solo con l’aumento del reddito possiamo sperare di ridurre la disoccupazione e aumentare il benessere delle famiglie. Andò così anche lo scorso anno, con dichiarazioni baldanzose (poi in larga misura corrette) e la previsione di un 2019 “bellissimo”, seguite da realizzazioni scarse o nulle. Mentre abbiamo ormai archiviato per quest’anno una crescita zero, le nubi si addensano all’orizzonte anche per gli anni a venire e le previsioni peggiorano. Da Moody’s a Fitch, dall’Ocse al Centro studi confindustria (Csc) sembra difficile che il 2020 vada oltre uno striminzito +0,4 per cento del reddito nazionale. Perché non riusciamo a imparare dal nostro passato e a imboccare una strada economicamente e socialmente più virtuosa, con un’economia in crescita più sostenuta e una redistribuzione in grado di alleviare efficacemente le aree di disagio e di offrire maggiori opportunità ai giovani? L’opinione pubblica, che pure si pone questa domanda, tendendo genericamente a colpevolizzare la “cattiva politica”, trascura normalmente il peso che il debito pubblico esercita sulle scelte politiche, impedendo o seriamente vincolando politiche di bilancio espansive (diminuzione delle imposte e aumento della spesa là dove sarebbe opportuno, per esempio per formazione e ricerca o per la green economy) ed esponendo il paese al rischio ricorrente di una crisi finanziaria. Sappiamo peraltro che la crescita stabile non viene dal debito, soprattutto quand’esso è già molto elevato ed è stato creato per sostenere spese correnti; ma sappiamo anche che nessun debito pubblico di grandi dimensioni riacquista sostenibilità senza un’adeguata crescita economica. Con un debito elevato, ridurre le imposte è pressoché impossibile mentre ridurre la spesa diventa socialmente difficile visto che ogni spesa pubblica avvantaggia qualcuno e togliere qualche beneficio può risultare pericolosamente impopolare. Pertanto, utilizzata la “flessibilità” per bloccare l’aumento dell’Iva, cosa rimane per promuovere la crescita? Crescono le prese di posizione a favore di una scossa vera, uno choc “positivo”. Si sono espresse in tal senso, con vigore, le parti sociali, dai sindacati al mondo imprenditoriale che hanno insistito sul taglio del “cuneo fiscale”, ossia il divario, per l’impresa, tra costo del lavoro e retribuzione lorda e, per il lavoratore, tra retribuzione lorda e netto in busta paga, con la differenza dovuta a imposte e contributi sociali. Ridurre questo doppio divario permetterebbe al lavoratore di avere un reddito disponibile più elevato a parità di retribuzione lorda, con effetti sulla capacità di consumo e sulla disponibilità al lavoro di almeno una parte degli inattivi. Un minor cuneo fiscale dal lato delle imprese ne aumenterebbe la competitività, inducendole a una possibile riduzione dei prezzi e a una maggiore domanda di lavoro, evitando delocalizzazioni o chiusure.

 

Data la natura di risparmio previdenziale dei contributi sociali – implicita nel metodo contributivo di calcolo delle pensioni, che va assolutamente mantenuto se si vuole mantenere la sostenibilità del sistema pensionistico – l’operazione dovrebbe avvenire con tagli di imposta. Ridurre il cuneo, però, costa, e non poco: 8 miliardi per accorpare i primi due scaglioni Irpef, abbassando l’aliquota (marginale) per i redditi tra i 15 e i 28 mila euro dal 27 al 23 per cento, più altri 10 se si volesse tagliare anche solo di un punto il cuneo a carico delle imprese (secondo calcoli del Csc). Sebbene costoso, tuttavia, una vera e sostanziale riduzione del cuneo potrebbe davvero rappresentare quello choc necessario a mettere benzina nel motore della crescita, permettendo di spezzare la trappola del declino e di restituire in futuro più dell’iniziale costo; una sorta di investimento sociale, insomma, con costi attuali e benefici attesi per il futuro. Una scelta di rilancio che non prevede, come per quota 100, che il lavoro dei giovani si ottenga essenzialmente mandando prima in pensione chi è al lavoro bensì includendo più persone (donne e uomini di tutte le età) nel mondo del lavoro.

 

Dove trovare le risorse necessarie? In primo luogo con la lotta all’evasione, soprattutto perché non contempla nuovi condoni. Occorre però essere realistici. “Pagare tutti per pagare meno”, sostiene Conte, aggiungendosi alla lunga lista di quanti, prima di lui, hanno sostenuto la stessa tesi. Vero: se pagassimo tutti, forse potremmo neppure più corrispondere l’Irpef! Un’ipotesi paradossale, certo, ma non manifestamente infondata: l’ammontare di questa imposta – circa 180 miliardi di euro nel 2018 – è, infatti, non troppo lontano da una ragionevole stima delle entrate sottratte al fisco dall’evasione fiscale, collocabile tra un estremo forse eccessivamente pessimista (sui contribuenti) di circa 190 miliardi di euro l’anno e un altro, più prudente, di “soli” 120. Un’equivalenza puramente teorica perché cancellare l’evasione fiscale è utopistico, ma il principio resta. E avrebbe senso, in conseguenza di quanto prima scritto, destinare le risorse recuperate interamente alla riduzione del cuneo fiscale, anche per ristabilire un rapporto di fiducia tra lo stato e i cittadini.

 

Naturalmente anche se, di fronte alle stime prima indicate, i 7 miliardi di recupero previsti dal governo sembrano pochi, quale credibilità ha la nuova lotta all’evasione? La prudenza è necessaria, data l’incertezza che ancora grava sugli strumenti da adottare e dopo i dubbi espressi da Banca d’Italia, Corte dei conti e Ufficio parlamentare di Bilancio. L’utilizzo del contante è (nuovamente) finito in cima alla lista dei presunti colpevoli, dopo che il governo Monti aveva stabilito un tetto a 1.000 euro poi alzato a 3.000 dal governo Renzi. Il punto è che l’imposta più evasa è proprio l’Iva e pagare in contanti evita la tracciabilità del pagamento. Lotteria degli scontrini, incentivi al Pos, bonus sull’utilizzo della carta: sembrano perdere peso le coercizioni e le sanzioni per chi usa il contante a favore di deduzioni dall’imponibile di una parte di quanto pagato con carta ed estrazioni a premi sugli scontrini, sulla scia di esperienze positive di altri paesi, da Malta al Portogallo. Carote, dal governo giallorosso, più del bastone del governo gialloverde (la “galera” per gli evasori, che peraltro non dispiace ai grillini). Tuttavia, cambiare le abitudini in materia di pagamenti e gli atteggiamenti nei confronti del fisco rimane un obiettivo molto ambizioso e necessariamente graduale. Dove trovare risorse per la crescita, se contare sulla lotta all’evasione è insufficiente? Una risposta può derivare dall’esame del numero delle persone potenzialmente interessate a diverse scelte politiche e i costi per metterle in pratica.

 

Una riduzione del cuneo fiscale, attraverso l’accorpamento dei primi due scaglioni Irpef, riguarderebbe oltre la metà dei contribuenti. Ai redditi medi, ai quali arriverebbero ovviamente i maggiori benefici, si aggiungerebbero, per effetto della più bassa aliquota media, anche i redditi più elevati, vantaggio che potrebbe però essere facilmente neutralizzato. Rimarrebbero esclusi gli incapienti, persone dal reddito talmente basso da non essere tassati. Mettendo sul piatto altri 2 miliardi, secondo le stime del Csc, si potrebbe però finanziare una sorta d’imposta negativa (di fatto, un sussidio) per i più poveri. Calcolato però sul reddito da lavoro effettivamente percepito, evitando alla radice il disincentivo al lavoro insito nel reddito di cittadinanza (rdc) e la conseguente “trappola della povertà”, per cui se il sussidio è uguale o di poco inferiore a un netto in busta paga, tanto vale restare a casa.

 

Il costo complessivo di questi due interventi – spalmato su circa 30 milioni di persone – ammonterebbe a 10 miliardi. Un costo, pertanto, inferiore alla somma delle risorse stanziate per rdc e quota 100 per i prossimi anni, 16 miliardi di euro; e persino inferiore alla somma effettiva drenata da queste misure, molto meno efficaci o popolari di quanto inizialmente previsto: circa 2 milioni di persone beneficeranno infatti del RdC (grazie a circa 1 milione di domande accolte) e soltanto 200 mila persone utilizzeranno quota 100. Montagne (di dichiarazioni) che hanno partorito poco più che topolini, e poco o punto contribuiscono alla crescita e all’occupazione.

 

Prendere atto del declino dell’economia e delle sofferenze della società impone il dovere morale, oltre che politico, di scelte coraggiosamente rivolte alla crescita e all’occupazione, anche sacrificando, o inquadrando in una logica diversa, discusse recenti misure come quota 100 e reddito di cittadinanza.