Giuseppe Conte suona la campanella di Piazza Affari (foto LaPresse)

Perché la fine del governo a doppia trazione populista è un sollievo per Piazza Affari

Renzo Rosati

Borsa, banche e Banca d’Italia hanno una avversione naturale al sovranismo euroscettico. Senza Salvini un pericolo serio è evitato

Roma. Occhio agli indici e alle date. Dal 13 agosto a ieri l’indice del settore bancario ha guadagnato a Piazza Affari oltre il 6 per cento, unico settore in decisa salita. Quel 13 agosto ha segnato la prima vera sconfitta di Matteo Salvini in una road map che nelle intenzioni doveva portarlo alle elezioni anticipate da vincere a mani basse: ma al “capitano” leghista mancarono i numeri, il Senato votò per lo slittamento del dibattito nel quale Giuseppe Conte lo avrebbe di fatto estromesso dal governo, e soprattutto emerse una maggioranza parlamentare ostile alle urne e in sostanza disposta ad un governo rossogiallo. Contemporaneamente e sempre da quel giorno lo spread italiano è disceso dal 231 a 173 punti, un beneficio di oltre il 25 per cento che consente al Tesoro di pagare sui Btp decennali un interesse appena superiore ad un punto, prossimo ai minimi storici.

 

Certo, c’è stato l’annuncio di un nuovo bazooka della Banca centrale europea nonché i segnali di minor rigore sui debiti sovrani sia della vigilanza della stessa Bce sia dalla commissione di Bruxelles: ma nessun altro paese dell’euro né europeo ha visto ridursi di tanto l’indice di rischio al quale guardano i mercati e le agenzie di rating. Aggiungiamo che il precedente governo Lega-M5s stava per insediare una commissione sugli istituti di credito e sulla Banca d’Italia particolarmente forcaiola, alla cui guida avrebbe dovuto installarsi Gianluigi Paragone, ex direttore della Padania poi conduttore del talk show ultrapopulista La Gabbia, ora senatore grillino che minaccia di uscire dal movimento per protesta contro “l’inciucio con il Pd, il partito delle banche e dei poteri forti”. E aggiungiamo pure che la Banca d’Italia era stata messa costantemente sotto tiro da Salvini e Luigi Di Maio allora entrambi in fase euroscettica. “I nostri problemi non sono imputabili all’Unione europea, senza la quale saremmo più poveri” aveva reagito il governatore Ignazio Visco nelle ultime Considerazioni finali lette il 31 maggio. Mentre Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria, nell’assemblea dei 100 anni del 12 luglio aveva usato toni insolitamente garibaldini, chiedendo “meno polemiche e più politiche per lo sviluppo”, invitando a non sottovalutare lo spread “che ci impoverisce giorno dopo giorno”, definendo il debito pubblico “la principale palla al piede della crescita e dell’occupazione”.

 

Può darsi che ora Salvini includa anche le banche, Bankitalia e la finanza globale nel mega-complotto che, a suo dire, avrebbe fin da dopo le elezioni europee stabilito di cacciarlo fuori dal governo italiano in quanto capo del maggior partito euroscettico nel parlamento di Strasburgo. Complotto che si sarebbe perfezionato nell’appoggio dei 5 stelle e di Conte alla nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione Ue “per ordine di Angela Merkel ed Emmanuel Macron”. Ciò che è certo è che quello bancario e assicurativo è tra i settori imprenditoriali più internazionalizzati, oltre che più dipendenti dai regolatori di Francoforte e Bruxelles.

 

I francesi Jean Pierre Mustier e Philippe Donnet guidano Unicredit e Generali, Lorenzo Bini Smaghi è presidente di Société Générale, Vittorio Grilli, ex ministro del governo di Mario Monti (da Salvini citato come esempio del “mezzo golpe” odierno) è un top manager di JPMorgan. Ci si può aspettare una campagna leghista tipo quella anti Matteo Renzi, “manovrato dalle banche”, con le fake news dei suoi incontri proprio con il numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon. Ma le banche hanno particolarmente sofferto il calo delle grandi fusioni e acquisizioni internazionali in Italia nella seconda metà del 2018, in era gialloverde: uno studio di Kpmg evidenzia che dopo l’ottima partenza di inizio anno con operazioni per 31,5 miliardi (in gran parte determinate da Luxottica-Essilor e Atlantia-Abertis) i secondi sei mesi hanno subito una contrazione a 18 miliardi. Frenata proseguita nel primo trimestre 2019 con 4,2 miliardi rispetto ai 10 dello stesso periodo 2018. Il sovranismo e l’isolamento non piacciono alla finanza a Wall Street, figuriamoci a Piazza Affari.

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