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L'idea dei Btp in dollari demolisce il sovranismo obbligazionario salviniano

Ugo Bertone

Viste le mosse delle Banche centrali e quelle di Trump, puntare sulla valuta americana forte potrebbe non essere una mossa vincente

Milano. Lontani dall’infido euro. Ma non per proporre agli operatori di puntare verso il porto innovativo dei minibot così da affidare al governo del cambiamento le armi per accelerare lo sganciamento dalle catene della Bundesbank e dai vincoli della manovra. No, al Tesoro, che, come accusa Matteo Salvini, “non ha coraggio”, stanno progettando una prossima serie di emissioni in dollari, tanto per allargare la gamma dell’offerta ai gestori internazionali che sono i suoi principali clienti.

 

L’Italia, infatti, si accinge a riproporre un titolo in dollari riaprendo un mercato chiuso nel settembre del 2010 quando è stato rimborsato un triennale in valuta americana. Da allora sono in circolazione solo due trentennali che risalgono ad epoche remote: il primo addirittura emesso ancor prima dell’euro nel 1993, l’altro in scadenza nel 2033. In questi anni, dominato dalla spada di Damocle dello spread, più volte i responsabili del debito pubblico italiano hanno meditato di riaprire canali alternativi alla moneta comune, anche per ridurre la dipendenza dai clienti tradizionali del Tesoro. Ma l’offerta di un global bond in dollari, già data per probabile per la fine del 2018 dal capo della direzione dei debito pubblico, Davide Iacovoni, è slittata nel tempo. Mica per pressioni politiche, semmai per la necessità di attendere prima il varo del decreto sulla collateralizzazione dei derivati, poi la recente firma degli accordi bilaterali di garanzia con tutti gli specialisti (diciassette) che operano sui nostri titoli. Ora tutti i problemi, a partire dal nodo dei costi, sono stati superati: i grandi operatori possono scommettere via Btp sul rapporto tra euro e dollaro. E non è escluso che in futuro, il Tesoro possa allargare la sua offerta ad un titolo in yen o, magari, in yuan. Oppure – idea perfida – offrire un’emissione in sterline da infliggere ai supporter della Brexit, il flagello che colpisce la valuta di Sua Maestà. L’Italia, almeno per ora, non ha di questi problemi. Negli ultimi mesi i Btp sono stati i titoli migliori dell’Eurozona, garantendo ai sottoscrittori ricchi guadagni (l’altra faccia della medaglia della volatilità legata alla turbolenza della politica italiana).

 

Ma l’esperienza insegna che sul mercato del debito, a torto ritenuto tranquillo, non ci si può distrarre mai. Non a caso solo pochi mesi il ministro Giovanni Tria ha deciso di rinunciare al varo di un nuovo Btp Italia, l’emissione rivolta direttamente al grande pubblico che, dopo aver salvato nel 2012, le casse dello Stato a corto di liquidità, aveva riservato nel 2018 un’amara sorpresa al Tesoro. Una prudenza eccessiva, visto che da quel momento è scattato un vero e proprio rally del debito italiano che – al netto degli scossoni garantiti dei problemi della manovra finanziario – ha ridimensionato il rischio sul debito italiano, protetto dallo scudo della moneta comune, con buona pace di Claudio Borghi e degli altri fattucchieri dei minibot.

 

Resta da chiedersi se, alla luce delle mosse delle Banche centrali e dell’orientamento di Donald Trump, abbia senso puntare sul dollaro forte in attesa di conosce durata e rendimenti dei nuovi titoli italiani. In realtà il presidente degli Stati Uniti non fa mistero di volere un dollaro debole al servizio dell’export americano. Ma, come si legge in un report di Bank of America, la scelta di rilanciare l’economia con i bassi tassi e la stampa di nuova moneta è stata adottata un po’ da tutti, dalla Cina alla stessa Banca centrale europea e rischia di tradursi in un gioco a somma zero con effetti diluitivi un po’ per tutti. Forse, però, più per l’Europa alle prese con una congiuntura ad alto rischio che per gli Stati Uniti che tra l’altro vantano una Borsa ben più tonica. Ma la partita è aperta.

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