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Lo stato non mette le ali

Alitalia ha bisogno di meno capitani e più capitali coraggiosi

Alberto Brambilla

Fs scelgono come soci solo Atlantia e Delta. Il rischio di non fare una ristrutturazione radicale, ma di conservare lo status quo. Una rotta molto africana

Roma. In generale l’intervento dello stato in una società d’interesse collettivo colpita da una congiuntura avversa – vedi il settore automobilistico americano nel 2008 – è possibile dopo che le soluzioni di mercato sono fallite e purché sia temporaneo. Nel caso di Alitalia invece l’intervento dello stato è avvenuto proprio per evitare che si potesse trovare una soluzione di mercato. Ovvero con un partner privato in grado di rilanciarla, come Lufthansa, respinta nei mesi scorsi dal ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, per non procedere a una ristrutturazione radicale della compagnia che, in fondo, non è mai avvenuta. Il trascinamento di inefficienze operative è all’origine delle crisi cicliche di Alitalia, costate negli anni circa 9 miliardi di euro ai contribuenti. Ora ci si è arrangiati per soccorrerla per la terza volta in un decennio. Il governo Lega-M5s era riuscito a coalizzare solo operatori infrastrutturali concorrenti tra di loro e rispetto al settore aereo tenendo a distanza Atlantia (autostrade e aeroporti) dopo il crollo del Ponte Morandi, benché fosse l’unica capace di intervenire.

 

La nuova Alitalia sarà controllata dalla società ferroviaria Fs, controllata a sua volta dallo stato, e dallo stesso ministero dell’Economia, con la maggioranza delle quote. Il cda di Fs ha scelto come partner solo Atlantia e l’americana Delta Airlines, l’unico socio industriale di rango che era già in partita. Gli outsider esclusi – Claudio Lotito, presidente della Lazio, l’imprenditore boliviano Germán Efromovich, e il gruppo Toto, altro concessionario autostradale – non hanno superato il vaglio di Mediobanca, l’advisor finanziario dell’operazione. Se la bistrattata società dei Benetton non fosse intervenuta in extremis la nuova Alitalia sarebbe nata morta.

 

I soci hanno motivazioni soprattutto difensive. Atlantia aveva già partecipato ai salvataggi precedenti (2008 e 2014) e giovedì scorso ha deciso di valutare l’operazione – a tre giorni dalla scadenza per presentare le offerte – al fine di tutelare l’aeroporto di Fiumicino controllato dalla sua Aeroporti di Roma (dove oltre il 30 per cento del traffico è operato da Alitalia e dal quale deriva il 28 per cento dei ricavi aeronautici per la società) e quindi poter modificare un piano industriale che, per com’era stato preparato in questi mesi da Fs e Delta, non garantiva la competitività della compagnia. L   e Fs sono state spinte a intervenire dal governo col pretesto di sviluppare il traffico intermodale (treno-aereo) ma anche per fungere da ammortizzatore sociale e assorbire i dipendenti in uscita da Alitalia, evitando esuberi e proteste sindacali. Delta voleva evitare che un concorrente come la tedesca Lufthansa la insidiasse sulle tratte intercontinentali se fosse diventata azionista. Proprio Lufthansa avrebbe rappresentato una “soluzione di mercato”. S’era affacciata proponendo una ristrutturazione con l’esternalizzazione di alcuni servizi, quindi l’uscita di parte del personale dal perimetro di Alitalia. Di Maio l’aveva rifiutata mostrando di procedere in senso opposto a quanto promesso prima di andare al governo: voleva “una partnership con vettori europei” per togliere la “mangiatoia” alla politica e “non usare più soldi pubblici” (aprile 2017).

 

Il motivo per cui il modus operandi non è cambiato è spiegato dall’articolo del Financial Times dell’11 luglio, “L’atteggiamento anti business di Roma è un allarme per gli investitori”: si fa un paragone tra l’Iri e la vicenda Alitalia per dire che la preoccupazione del governo gialloverde è conservare il controllo di un bacino di voti, non risanare l’azienda. Una compagnia aerea a controllo pubblico non ha pari in Europa (lo stato francese e quello olandese hanno quote di minoranza in AirFrance-Klm), ma in Africa è molto comune: oltre 30 stati su 54 controllano almeno un vettore. Le ragioni per immaginare un rilancio stanno nell’impegno all’ultimo secondo di Atlantia e nella possibilità di rivedere la strategia di Alitalia entro settembre. Se dovesse andare male non sarà un fallimento di mercato, ma di stato.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.