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Miti dei cieli. Alitalia compagnia di bandiera

Lorenzo Borga

“Strategica” per il turismo italiano secondo Di Maio. Non può essere “venduta o svenduta” agli stranieri, dice Salvini. Per il governo il controllo pubblico è necessario. Ma alla prova dei fatti e della concorrenza non è proprio così

Compagnia di bandiera sì, o compagnia di bandiera no? Le discussioni su Alitalia e sul suo ruolo strategico per il turismo del nostro paese sono iniziate quasi dieci anni fa, quando il governo Berlusconi era di fronte alla scelta se vendere la compagnia ad Air France oppure spingere per una soluzione imprenditoriale italiana (come è poi accaduto).

Allora le parole del premier erano chiare, ma appaiono ancora attuali: “È una follia rinunciare alla compagnia di bandiera. Si tratta di un disastro, ad esempio, nel settore del turismo che si dice crescerà del 50% rispetto ad ora […]. E se si affidano ad Air France per un viaggio di 7 giorni pensate che ce li scarichino qui nelle nostre città dell’arte o li portino ai castelli della Loira?”. L’ex Cavaliere è stato presto imitato dai due nuovi talenti della politica italiana, ora al governo. Luigi Di Maio è da sempre convinto che Alitalia possa avere un ruolo determinante per attrarre turisti dall’estero, e dichiara di avere intenzione di “farla diventare una compagnia strategica per il turismo italiano” e “per farlo serve un controllo pubblico”. Anche l’alleato di governo, Matteo Salvini, che non segue in prima persona il dossier, ne sembra convinto: “Mi interessa che non ci sia una compagnia di bandiera venduta o svenduta a compagnie estere che poi ovviamente farebbero gli interessi dei loro paesi: è chiaro che ognuno tira l'acqua al suo mulino”. E spesso aggiunge che “il turismo è il nostro petrolio e noi non possiamo non avere una compagnia di bandiera forte”.

 

La teoria sembra chiara, ribadita anche da Claudio Borghi in occasione dell’assemblea di Abi: nazionalizzare, perché porta turismo. Infatti, compagnie straniere – a detta dei vari governanti – sarebbero più propense a cambiare le rotte verso i loro paesi sottraendo flusso turistico all’Italia. Un ragionamento che tuttavia è poco coerente con i dati del mercato del trasporto aereo europeo. Un mercato che in Unione europea è stato liberalizzato tra gli anni ’80 e ’90, attraverso un percorso portato a termine nel 1997. In precedenza, spettava ai singoli paesi, e alle loro agenzie, stabilire le regole: in questo modo si riservava un trattamento di favore alle compagnie nazionali sul mercato interno, mentre il mercato internazionale era regolato da accordi bilaterali tra stati. Con la liberalizzazione, invece, la definizione delle rotte ha iniziato a seguire le logiche di mercato e la domanda dei passeggeri, anche questa fortemente mutata nei decenni.

 

Le compagnie straniere “portano acqua al loro mulino”?

In questo modo sono nate nuove compagnie che tutti abbiamo imparato a conoscere come “low cost”, e molte altre sono state privatizzate, mentre i mercati domestici venivano occupati dalle aziende più efficienti. Non è un caso che in Italia oggi la principale compagnia aerea – sul mercato domestico e internazionale – sia già straniera, e in particolare irlandese: Ryanair, che copre il 25 per cento del mercato italiano. Tra le 10 compagnie più presenti nel nostro paese, ben 9 sono di proprietà straniera e solo una è italiana: proprio Alitalia. Delle aziende straniere, solo Air France risulta partecipata in maniera consistente da uno stato nazionale secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile. Molte infatti delle ormai ex compagnie di bandiera sono state privatizzate, come British Airways, Lufthansa, Klm e Iberia. Tuttavia questa penetrazione straniera non ha determinato una riduzione di offerta di rotte da e verso il nostro paese, né una penuria di opzioni sul mercato domestico. Anzi: tra il 2014 e il 2018 i passeggeri totali sono aumentati di 30 milioni (+21 per cento), grazie soprattutto all’aumento dei viaggi internazionali che sono incrementati in cinque anni del 24 per cento e ormai sorpassano in numero quattro volte i passeggeri nazionali. Un mercato in crescita dunque, nonostante la crisi recente della compagnia di bandiera italiana.

 

 

 

Alitalia strategica per il turismo italiano?

Se non sembra essere coerente con i numeri la teoria per cui le compagnie straniere farebbero gli interessi degli stati di origine, non supera la prova della statistica nemmeno la narrazione per cui Alitalia è oggi un asset fondamentale per il turismo internazionale. Ormai il mercato sembra poter soddisfare in modo autonomo l’offerta di rotte, in particolare quelle intercontinentali che sono le più redditizie, e ha già reagito al calo di efficienza della compagnia di bandiera. Alitalia infatti ha perso molto terreno, ma questo non ha significato minore turismo verso il nostro paese. I dati dell’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac) mostrano il crollo: nel 1997, anno della completa liberalizzazione, Alitalia deteneva circa il 75 per cento del mercato domestico italiano e circa il 35 per cento del mercato intercontinentale che interessava l’Italia; nel 2018 invece, la percentuale sul mercato italiano si è dimezzata, raggiungendo il 38 per cento, mentre sul mercato internazionale Alitalia sposta ormai solo l’8 per cento dei passeggeri. Il calo è stato progressivo e risulta nel crollo che l’azienda ha subito sulla sua fetta rispetto al mercato totale (domestico e internazionale): in 21 anni è passata da quasi il 50 per cento al 14. I dati degli ultimi anni, raccolti dall’Enac, sono disponibili in formato Excel qui. Eppure, secondo i numeri di Eurostat, il flusso di turisti stranieri verso il nostro paese è sempre aumentato negli ultimi 10 anni, per un incremento totale di circa un terzo rispetto al 2007. Una crescita le cui cause sono da ricercare anche altrove, ma che almeno può alimentare forti sospetti sulla sostenuta importanza strategica di Alitalia per il settore turistico italiano. Ritenere che una meta turistica di valore mondiale come il nostro paese (e questo – badate bene – è differente dall’affermare che il turismo è il “nostro petrolio”, una frase senza senso in un paese manifatturiero come il nostro) rimanga a corto di passeggeri significa non capire come funziona il mercato, come è stato sostenuto anche in un fact-checking de Lavoce.info.

 

L’infondatezza della tesi per cui Alitalia risulta essenziale per il nostro mercato di aviazione civile è dimostrata anche dai casi di cessione o fallimento di compagnie di bandiera in altri paesi, raccolti nel 2014 in un report dell’Istituto Bruno Leoni (da sempre forte detrattore della gestione pubblica di Alitalia) redatto da Ugo Arrigo e Lucia Quaglino. In molti di questi casi il trasporto passeggeri non ha subito rilevanti scossoni, se non nel breve periodo. Gli autori fanno il caso della compagnia di bandiera olandese Klm, privatizzata e ceduta nel 2003 ad Air France: i ricavi per passeggero-chilometro sono aumentati del 50 per cento da allora al 2012 e il numero di biglietti staccati di più di un terzo. Sorte simile è toccata a Scandinavian Airlines, della quale la metà delle azioni è di proprietà di azionisti privati dal 2001: nel 2012 registrò un aumento del 23,5 per cento di passeggeri rispetto al 2003 e un aumento dei ricavi per passeggero-chilometro del 32,5. In Spagna invece nel 2010 Iberia fu fusa con British Airways (compagnia di bandiera inglese) nell’International Airlines Group. Nei due anni successivi tutto il mercato spagnolo entrò in crisi, anche Iberia, ma la nuova realtà internazionale riuscì a recuperare i passeggeri e a mantenere stabile l’offerta.

 

A difesa degli hub aeroportuali

Un’altra argomentazione che viene portata a favore della nazionalizzazione di una compagnia aerea è preservare l’interesse nazionale, vale a dire proteggere gli hub aeroportuali nazionali che hanno valenza internazionale (in Italia, Malpensa e Fiumicino). Ogni compagnia infatti tende a far partire i viaggi intercontinentali dai propri hub di riferimento, spesso in patria, dopo avervi fatto scalo. Detenere quindi una compagnia di proprietà pubblica potrebbe arginare questa deriva e mantenere le partenze in Italia. Questa è certamente un’argomentazione più fine, condivisa anche dal direttore de Linkiesta Francesco Cancellato, che tuttavia rischia di non prendere in considerazione l’ormai scarsa rilevanza di Alitalia soprattutto sulle rotte internazionali (8 per cento, anche se sull’intercontinentale la percentuale è maggiore) e il fatto che tutti i maggiori hub aeroportuali europei sono – secondo i dati Eurostat – in forte crescita dalla fine degli anni ‘90, nonostante le numerose privatizzazioni di compagnie di bandiera che si sono verificate nel frattempo. Anche l’hub nazionale di riferimento di Alitalia, Roma Fiumicino, ha visto crescere i passeggeri trasportati, nonostante la crisi della compagnia. Insomma, è probabile che le aziende scelgano gli aeroporti sulla base della convenienza piuttosto che della nazionalità, proprio come accade per i passeggeri.

 

Le ragioni per cui tutti i governi hanno difeso la proprietà pubblica di Alitalia sono probabilmente altre. Da una parte la compagnia ricopre ancora un importante ruolo per il trasporto interno, in particolare al Sud e nelle isole. In secondo luogo, in caso di privatizzazione rischierebbe il posto una parte degli attuali 12mila dipendenti, un argomento sul quale ogni governo è ragionevolmente sensibile. Eppure entrambe le preoccupazioni avrebbero potuto essere risolte anni fa, magari proprio con quei 9 miliardi di euro di soldi pubblici che Alitalia ci è costata dal 1975 a oggi.

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