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Lo spread ha cambiato l'Italia

Luciano Capone

La sfiducia prodotta dal contratto di governo compie un anno e il vero risultato dei gialloverdi è la fuga dalla credibilità

Roma. “Furono settimane molto preoccupanti, nel giro di pochi giorni il clima venne stravolto e da allora non è più cambiato”. Pier Carlo Padoan che all’epoca era ministro dell’Economia in prorogatio ricorda con preoccupazione l’anniversario dell’ingresso in una nuova fase politica ed economica del paese. Da un certo punto di vista, soprattutto per l’economia, più traumatica delle elezioni del 4 marzo. E’ infatti passato un anno esatto da quando l’Italia ha abbandonato “quota cento” (quella dello spread, non delle pensioni) per arrivare rapidamente a “quota trecento”. Il 16 maggio, dopo la pubblicazione a Borse chiuse da parte dell’Huffington Post della bozza del “contratto del governo del cambiamento” sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, arriva la reazione dei mercati: lo spread inizia la sua ascesa verticale, di circa 20 punti al giorno. Gli investitori nazionali e internazionali, che erano stati alla finestra durante le fase incerta delle trattative tra le forze politiche, reagiscono vendendo i titoli italiani di fronte un programma che prevede non solo la possibilità di un’uscita dall’euro (attraverso la modifica dei trattati in modo da consentire “di recuperare la propria sovranità monetaria”) ma la deliberata volontà politica di farlo, nel punto in cui Lega e M5s chiedono a Mario Draghi di fare un falò del debito italiano: cancellare 250 miliardi di titoli posseduti dalla Bce, per un valore pari a circa il 10 per cento del debito italiano.

 

Il 15 maggio 2018 il differenziale dei titoli italiani rispetto al bund tedesco è di 130 punti, il 26 maggio ha già sfondato quota 200. Nei tre giorni successivi, con l’indicazione a ministro dell’Economia di Paolo Savona che in passato aveva proposto un Piano B di uscita dall’euro, il veto del Quirinale sul suo nome e la temporanea rinuncia all’incarico di Giuseppe Conte, lo spread sfonda quota 300. Il culmine, 303 punti, viene raggiunto quando il “moderato” Luigi Di Maio minaccia l’impeachment nei confronti del presidente della Repubblica, l’unica figura istituzionale ritenuta in grado di frenare i propositi politici più sconsiderati: un balzo terrificante, 60 punti in un giorno. In quei giorni l’ampiezza dei movimenti è superiore ai peggiori giorni del 2011, quando a rischio era la tenuta di tutta l’Eurozona: spariscono le quotazioni e le uniche transazioni sono di vendita. Lo spavento è forte e in quei giorni tutto il paese si rende conto di saltare gambe all’aria. Le forze di governo fanno un passo indietro, l’impasse politico-istituzionale viene sbloccata e la crisi finanziaria evitata. Eppure, a un anno esatto da allora, siamo di nuovo allo stesso punto. Non solo per le dichiarazioni irresponsabili sullo sforamento del 3 per cento di deficit/pil da parte di Salvini, ma perché lo spread ha toccato di nuovo i 290 punti base. Anzi, la situazione è peggiore rispetto a un anno fa: “Non c’è più la crescita, il deficit è più alto e non c’è più spazio fiscale. E’ il peggiore dei mondi possibile”, dice Padoan. 

 

Dall’uscita della bozza del contratto di governo, Lega e M5s hanno fatto vivere il paese su un’ambiguità di fondo rispetto alla permanenza nella moneta unica: da un lato hanno sempre giurato di non volere uscire dall’euro, ma dall’altro hanno continuato a comportarsi come chi non vuole affatto rimanerci. Per mesi i più importanti esponenti dell’esecutivo – i due vicepremier Di Maio e Salvini, il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Giovanni Tria – hanno dichiarato che lo spread sarebbe rientrato, che bastava spiegare la manovra agli investitori, che l’incertezza sarebbe sparita quando i mercati avrebbero letto i provvedimenti e capito la politica economica del governo. E invece, forse proprio perché gli investitori hanno compreso, l’incertezza è sparita: lo spread non è più rientrato ai livelli dell’anno scorso e l’Italia è ormai considerata su un gradino di rischio superiore.

 

A differenza della crisi del 2011 e dei primi giorni delle tensioni di maggio, per tutto l’anno non c’è stato alcun contagio dei paesi periferici, effetto su cui probabilmente puntavano ambienti della maggioranza per richiedere un intervento sistemico dell’Europa. Ora l’Italia è isolata e idiosincratica rispetto agli altri paesi della periferia: 180 punti base in più rispetto alla Spagna e 160 in più rispetto al Portogallo, due paesi che, nonostante un’instabilità politica più forte della nostra, sono rimasti con i tassi allo stesso livello dello scorso anno.

 

Le dichiarazioni incendiarie di Salvini sull’aumento del deficit oltre il 3 per cento e quelle ancora più preoccupanti sull’intenzione di portare il debito pubblico oltre il 140 per cento (un livello che indica una dinamica fuori controllo), sono state in parte mitigate dal ministro Tria che ha giudicato “ingiustificato il nervosismo dei mercati” perché “gli obiettivi di finanza pubblica del governo sono quelli proposti dal governo e approvati dal parlamento con il Def”. Dopo le dichiarazioni di Tria lo spread è sceso, ma anche su questo fronte le armi sono più spuntate rispetto allo scorso anno. Perché i gemelli del deficit Salvini e Di Maio in questi dodici mesi hanno bruciato anche buona parte della credibilità internazionale del ministro dell’Economia, costretto a rimangiarsi gli impegni sul deficit presi a giugno in Europa e adesso con meno capacità di influire sui mercati. Tria ha spiegato che la tensione sul debito di questi giorni è “comprensibile alla vigilia di queste importanti elezioni europee”. In sostanza è un effetto collaterale della campagna elettorale dei partiti di governo. Ma il problema è proprio questo: ovvero che nel governo che si definisce “sovranista” la propaganda domina sull’interesse nazionale. Si può duellare con la Commissione europea, si possono sfidare i mercati, ma non si può andare in questo modo contro l’aritmetica elementare. I leader della maggioranza di governo non sembrano avere compreso la lezione dello scorso anno, in una situazione che è per molti versi più pericolosa di allora: crescita al palo, investimenti in calo, fiducia in discesa, spread in salita, deficit e debito pubblico in aumento. Nessun risultato elettorale potrà cambiare questa realtà. La lastra di ghiaccio sulla quale il paese sta scivolando è sempre più sottile e basta poco per romperla.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali