Il rating è sovrano: rischio deficit al 3,5 e a spread a 300

Renzo Rosati

Si apre la rischiosa stagione delle agenzie che valutano il merito di credito di un’Italia a tutto debito

Roma. Oggi con Fitch prende il via la stagione primaverile dei rating sull’Italia, che rischia di tramutarsi in un precoce autunno-inverno. Ad agosto 2018 l’agenzia ha lasciato invariato il giudizio BBB peggiorando l’outlook a negativo. Ma in sei mesi non c’è stato né un dato né un segnale che non abbia registrato per il paese un arretramento o addirittura una frana per l’economia reale e per i conti pubblici: sul primo fronte il 19 febbraio l’Istat ha certificato per dicembre 2018 un crollo annuo del 7,3 per cento del fatturato industriale, dato che non si vedeva dal 2009, all’inizio della crisi. Ieri l’indice Pmi (i direttori acquisti delle aziende) della manifattura europea è risultato in contrazione a febbraio sotto i 50 punti (49,2 rispetto a una previsione di 50,5), soglia che separa il rallentamento dalla stagnazione e che non veniva varcata dal 2013.

  

 

La situazione è grave in Germania, primo partner industriale dell’Italia, dove l’indice è sceso di due punti, a 47,7. Cresce invece in Francia: peccato che il governo gialloverde abbia scelto proprio il paese di Emmanuel Macron, secondo partner commerciale, come nemico pubblico, senza peraltro rinunciare agli attacchi alla Germania a guida Merkel. Così se a fine 2018 la produzione italiana è colata a picco nella prima parte del 2019 rischia di inabissarsi sia per fattori interni sia trascinata dal resto d’Europa. Senza tuttavia mostrare una propria capacità di reazione su altri terreni: per esempio nei servizi l’indice europeo servizi risulta migliore delle attese, di due punti in Germania e Francia. Questo insieme ha già indotto gli analisti di Fitch a tagliare le stime di crescita italiana nel 2019 dall’1,1 allo 0,3 per cento, e oggi sarà un miracolo se il rating rimarrà alla tripla B. Se invece scenderà a BBB- il paese si troverà a un solo gradino dal livello “non investment”, con effetti non solo sullo spread ma anche sui finanziamenti dietro garanzia che la Banca centrale europea concede alle banche perché li girino all’economia reale.

 

 

Carlo Cottarelli, già candidato premier del Quirinale e oggi economista a capo dell’Osservatorio sui conti pubblici, prevede che uno scenario simile assieme alle politiche governative “porti il deficit al 3,5 per cento e a uno spread a 300 punti”. Gli dà ragione Renato Brunetta, ex ministro di Forza Italia: “Cottarelli è giunto alle nostre stesse conclusioni su questo governo di buoni a nulla”. Il 15 marzo si esprimerà Moody’s, che ha già declassato l’Italia a Baa3 con outlook stabile (che potrebbe tramutarsi in negativo), e qui siamo appena sopra il livello Ba1 che viene sconsigliato agli investitori. A fine aprile chiuderà la tornata Standard & Poor’s che a ottobre ha lasciato la tripla B con outlook negativo: stessa situazione di Fitch. Di fatto in questo momento nell’Unione europea solo cinque paesi si presentano come l’Italia agli occhi di chi investe nei titoli di debito pubblico e nel settore privato: Bulgaria, Romania, Cipro, Croazia e Grecia. Una perdita di credibilità e quindi di sovranità economica che corona mirabilmente i nove mesi di governo sovranista, che non solo ha promesso via via la fine della povertà, il boom, il “2019 bellissimo”, ma anche il ritorno autarchico “dell’Italia agli italiani”. Ci siamo quasi. Il giudizio dei mercati è già stato anticipato dalla fuga di investitori esteri in Btp (75 miliardi a fine 2018) e dal calo di capitalizzazione della Borsa italiana dai 644 miliardi di fine 2017 ai 543 di fine 2018: 176 miliardi di soli investimenti finanziari, oltre il 10 per cento del pil. Ma è una parte del problema. Poi ci sono i rapporti con l’Europa. La Commissione di Bruxelles ha operato la più drastica revisione al ribasso del pil italiano fra tutti gli organismi nazionali e internazionali, tagliandolo allo 0,2 per cento.

 

Certo, qui siamo nel campo delle previsioni, alle quali finora il governo ha risposto che le misure espansive di reddito di cittadinanza e quota 100 avrebbero rilanciato il paese. Eppure lo stesso governo ha già ridotto le proprie stime dall’1,5 all’uno per cento, e il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha ora ammesso che un altro ridimensionamento è possibile, definendo solo prematura una manovra d’emergenza. Eppure i due azionisti della maggioranza continuano a propagandare investimenti pubblici che non si vedono: ne erano stati promessi per 82 miliardi ad agosto 2018, a ottobre erano scesi a 38 in 15 anni, fino a ridursi, oggi, a 20. Se tra questi c’è anche la Tav appena rinviata stiamo freschi. Stessa sorte delle privatizzazioni fissate in 10 miliardi nel biennio 2019-2020: non ce n’è traccia, mentre al contrario lo stato prosegue nell’interventismo con denaro pubblico su un arco che spazia da Tim ad Alitalia alle banche. Il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, è d’altra parte nel mirino dei 5 stelle. Le sue colpe sono di aver detto che i risarcimenti al risparmio “tradito” non possono essere incompatibili con le norme europee, nonché la contrarietà a trasformare la Cassa depositi e prestiti in una banca pubblica, il che la farebbe finire nel perimetro del debito statale, che collasserebbe. Mentre tutto il governo si arrocca nell’attendismo e negli slogan, l’Europa si muove. Il rinsaldarsi dell’asse industriale franco-tedesco gioca ovviamente contro l’Italia, così come le nuove regole che la Bce potrebbe imporre per il credito alle banche. L’assenza italiana è una Italexit autoimposta. Come nel rugby e nella pallanuoto, non siamo né fuori né dentro ma in espulsione temporanea. Per ora.