Uno dei display di Wall Street (foto LaPresse)

Dove sventola la bandiera delle multinazionali

Alessandro Berrettoni

Approfittare della protezione di un solo paese o spezzettarsi e godere dei vantaggi del mercato globale? Il dilemma delle corporation

Appartenere a tutti e nessuno, oppure diventare alfieri di una sola bandiera? Le ragioni per cui le compagnie decidono di cambiare il proprio passaporto, o di farne più di uno, sono ovvie: opportunismo, cinismo, profitto. Sull’Economist della scorsa settimana un articolo della rubrica Schumpeter ha posto la questione dello sciovinismo dei mercati, quella tendenza crescente a rinunciare alla suddivisione in tante sedi, per riunirsi sotto un’unica insegna. Se conviene. Parallelamente, se si osservano i numeri come fa il Financial Times, acquisizioni e fusioni transnazionali non sono mai state così tante. Nel primo trimestre del 2018 il loro valore ha superato i mille miliardi di dollari.

 

Qualcomm/Broadcom

 

Doveva essere l’affare dell’anno, prima che si mettesse di mezzo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Qualcomm produce chip e processori, oltre a occuparsi di ricerca e sviluppo nel campo delle telecomunicazioni: è uno dei player principali della sperimentazione sulla rete 5g, per esempio. Qualcomm è una public company americana, quotata al Nasdaq, e fa il 65 per cento dei profitti in Cina, soprattutto a Singapore, dove ha casa Broadcom, che comunque è quotata negli Stati Uniti. Considerata strategica dall’amministrazione Trump, alla fine Qualcomm non è stata acquisita dalla rivale “cinese”. Il 2 novembre, 4 giorni prima del tentativo di offerta, Broadcom aveva annunciato il desiderio di spostarsi negli Stati Uniti.

 

Unilever e Alibaba

 

Unilever ha due sedi: una a Londra, l’altra a Rotterdam. Quando Kraft-Heinz tentò l’acquisizione, il board chiese aiuto alle autorità inglesi per respingere il tentativo di acquisizione in quanto “tesoro nazionale”. Una volta saltato l’affare da 143 miliardi, con grossa delusione di Warren Buffett e 3G capital, principali azionisti del produttore di salse, Unilever ha deciso di andarsene dal Regno Unito. Motivazione ufficiale? “Vogliamo semplificare la nostra struttura”, oppure voleva rifugiarsi sotto un impianto di regole meno aperte alle acquisizioni. Diverso è il caso di Alibaba, che è stato invitato dal governo cinese a tornare “a casa” a Shangai.

 

Dopo anni in cui le multinazionali, per tenere fede alla radice semantica del loro nome, si sono mosse per avere più di un’identità “nazionale”, adesso, per scelta (Unilever) o costrizione (Cina) le compagnie sembrano cercare di mostrare lealtà a un solo stato.

 

E’ finita l’era della globalizzazione?

 

Non proprio, se si guarda ai numeri che pubblica il Financial Times. Secondo il quotidiano finanziario, “nonostante l’incertezza politica, la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e le negoziazioni per la Brexit”, quest’anno c’è stato un numero senza precedenti di acquisizioni che hanno movimentato, soltanto nella giornata di lunedì scorso, più di 50 miliardi di dollari. Il volume globale di fusioni e accordi raggiunge così 1,2 trilioni nel primo trimestre del 2018, con l’acquisto dell’azienda farmaceutica giapponese Takeda della rivale Shire per 40 miliardi di dollari.

 

La questione della nazionalità delle aziende dura ormai da circa trent’anni, in cui le compagnie si sono suddivise in tanti pezzetti per trarre il massimo vantaggio possibile: una questione sono le sedi legali, dove cioè si trovano i quartier generali e dove vengono prese le decisioni, e quelle fiscali. Quando Anshu Jain era al vertice di Deutsche bank, dal 2012 al 2015, si diceva spesso che la banca – di cui già dal nome si intende il domicilio – lavorava da Londra. ArcelorMittal, il colosso franco indiano dell’acciaio che si è aggiudicato la gara per Ilva, è formalmente lussemburghese, ma la famiglia Mittal, che la gestisce, vive in Inghilterra. Poi c’è Apple, che ha la sua sede fiscale in Irlanda, ma è gestita dalla California, ma riporterà negli Stati Uniti 38 miliardi di dollari in tasse, dopo la riforma fiscale decisa da Trump, che fa gola anche ad altre società. Va poi considerato dove le aziende sono quotate.

 

Il discorso segue una logica inattaccabile: un’azienda può raggiungere una valutazione più alta quotandosi in un determinato paese, avere per contro un accordo fiscale domiciliando le filiali sussidiarie in un altro e offrire benefit migliori ai propri dirigenti facendoli lavorare in un terzo. C’entra poco lo sciovinismo, insomma, avere più passaporti significa essere supportati da più governi, o combattere meglio contro acquisizioni e fusioni. L’estremo di questo ragionamento è il deal Renault-Nissan-Mitsubishi, che opera come un’alleanza di singole compagnie con singole governance collegate da partecipazioni incrociate.

 

Pro e contro

 

Una sola bandiera conviene? Dipende. Qualcomm adesso diventerà un nuovo orgoglio patriottico americano, Unilever troverà ad attenderla l’accogliente Olanda ed entrambe saranno più protette da aggressioni esterne. Ma, osserva l’Economist, essere più protetti può generare compiacimento. Una cosa che nel mercato di solito non è un complimento. O forse più che di una tendenza, si tratta di una coincidenza. Le singole compagnie decidono in base alla proprio business e ai vantaggi che può ottenere. Anche perché, per qualche società che cede alle avances di un governo, ce ne sono molte altre che continuano a fondersi, vendere, acquisire, tanto che il mercato è cresciuto del 76 per cento rispetto allo scorso anno, e non ci sono segnali di rallentamento. Comcast-Sky, Atlantia-Abertis, Jab-Dr. Pepper, solo per citare tre esempi di accordi chiusi bene. Nonostante le bandiere.