Dalle nebbie del piano JP Morgan riaffiora l'idea di nazionalizzare Mps per salvarlo (a meno che…)

Alberto Brambilla
Questa settimana le azioni della banca senese sono scese sotto i 20 centesimi. Le ipotesi sull’incremento del possesso azionario dello stato

Roma. Ogni qualvolta il Monte dei Paschi si trova in una situazione disperata, i sostenitori della “nazionalizzazione” hanno l’occasione di rilanciare l’idea della marcia dello stato su Siena per soccorrere la banca più antica del mondo. Ora, dopo oltre tre anni di crisi acuta, scorgono una nuova chance per farlo. Tra gli osservatori cresce il timore che i tentativi della banca americana JP Morgan Chase di trovare investitori interessati ad aderire all’aumento di capitale di Mps per 5 miliardi di euro entro la fine dell’anno possano fallire ancora. E’ poi opinione diffusa che il successo dell’operazione sia subordinato a un esito del referendum costituzionale del 4 dicembre favorevole al governo di Matteo Renzi, il quale finora ha inutilmente cercato di scindere i due eventi concomitanti. Questa settimana le azioni della banca senese sono scese sotto i 20 centesimi, prezzi da penny stock.

 

Da quando a luglio – una volta fallite le trattative tra Roma e la Commissione europea per un intervento pubblico teso a puntellare il settore bancario italiano scosso dalla Brexit – il governo s’è affidato alla banca d’affari americana guidata da Jamie Dimon per esplorare una “soluzione di mercato”, il titolo Mps è stato tra i peggiori del listino milanese, depresso periodicamente da raffiche di vendite. Il declino non si è arrestato nemmeno a settembre, quando con l’ambizione di ristabilire la credibilità di Mps (e per guadagnar tempo), JP Morgan di concerto con il Tesoro, primo azionista della banca con il 4 per cento, aveva forzato la sostituzione dell’ex ad Fabrizio Viola con il capo di JP Morgan Italia, Marco Morelli, che ricoprì ruoli apicali in Mps dal 2006 al 2008 – periodo della fatale acquisizione di Banca Antonveneta. Morgan Stanley, Unicredit, Intesa Sanpaolo non vogliono aderire alla ricapitalizzazione. Le banche interessate – Citigroup, Bank of America, Deutsche Bank e Credit Suisse – sono alla finestra. Di recente vari media riferivano di abboccamenti col fondo sovrano del Qatar, una monarchia sunnita, come investitore primario dell’aumento. Se il piano dovesse deragliare per ragioni operative o politiche – la vittoria del “no” al referendum al quale Renzi ha legato il suo destino, salvo poi smarcarsi – Mps, la terza banca italiana per asset, uscita peggio delle concorrenti europee dagli stress test estivi, diventerebbe un rischio sistemico rilevante, in una fase delicata per l’intera industria bancaria nazionale: quattro banche regionali in procedura di risoluzione faticano a essere vendute; fusione in fieri tra Bpm e Banco Popolare; Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza sono sotto la curatela del fondo pubblico-privato Atlante che ora le amministra; Unicredit, banca di dimensioni europee, è impegnata in un serrato piano di dismissioni teso a ridurre l’ammontare del suo prossimo aumento (7-10 miliardi).

 

A quel punto Mps rischierebbe la procedura di risoluzione con il bail-in per cui azionisti, obbligazionisti, fino ai depositi sopra i 100 mila euro, verrebbero azzerati; rischio esiziale per i risparmiatori e una scelta molto impopolare per Renzi. Oppure, appunto, si riaffaccerebbe l’ipotesi dell’incremento del possesso azionario dello stato in Mps. “Se necessario, si deve fare”, ha detto il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al Foglio. Una situazione di reale emergenza sarebbe l’unica opportunità per ottenere una deroga eccezionale al bail-in. “Se l’Europa non vuole, si prenda la responsabilità di una crisi bancaria sistemica con tutte le conseguenze sul risparmio continentale”, tuona Paolo Savona, economista eurocritico ed ex presidente del Fondo di tutela dei depositi. La terza via è che il cda di Mps, dopo avere rifiutato di farlo preferendo JP Morgan, valuti il piano di ristrutturazione proposto da Corrado Passera, già ad di Intesa, e dalla banca svizzera Ubs (aumento ridotto a 2,5-3 miliardi ma già chiavi in mano, dicono i suoi fautori). Dopodiché le vie della salvezza sono finite.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.