(foto LaPresse)

A Mps e Unicredit serve un Marchionne capace di superare l'era del televideo bancario

Claudio Cerasa

 Si parla molto di bail-in, di capitale, di crediti deteriorati, di regole di Basilea ma la verità è che oggi al sistema bancario italiano non mancano solo i soldi e non mancano solo alcuni decimali nel valore delle azioni ma manca molto più semplicemente e drammaticamente un disruptor.

Mettiamo per un attimo da parte i problemi che tutti conosciamo quando sentiamo parlare di banche. Mettiamo per un attimo da parte il tema dei crediti deteriorati, la questione della carenza di capitale, l’iper regolamentazione contenuta negli accordi di Basilea, le rigidità delle procedure legate al bail-in e proviamo a ragionare sul futuro di due grandi colossi italiani, come Monte dei Paschi di Siena e come Unicredit – due banche che nei prossimi mesi dovranno essere irrobustite con due abbondanti aumenti di capitale – partendo da una domanda semplice che forse può spiegare alcuni problemi del nostro sistema bancario meglio di uno stress test.

 

Pensateci un attimo: quando è stata l’ultima volta che siete entrati in una banca? Probabilmente molto tempo fa, magari non ricorderete, forse vi è capitato di passarci per depositare un assegno, per firmare un mutuo, per chiedere un prestito, per elaborare un piano di investimenti, ma nulla di più. Lo sappiamo tutti perché: gli sportelli bancari stanno semplicemente diventando come il televideo e la vita di chi ha un conto corrente sta cambiando a una velocità maggiore rispetto a quella di chi gestisce quel conto corrente. E tutto questo si porta dietro un altro problema mica da poco: le grandi banche provano infatti in tutti i modi a stare al passo con i tempi (applicazioni sugli smartphone, home banking) ma nessuno, non solo Mps e Unicredit, ha ancora trovato la chiave giusta per riportare le banche a occuparsi dell’unico grande tema che oggi viene trascurato: non come si salva una banca ma come si può tornare a fare business e reagire così alla prima grande rivoluzione industriale (la rivoluzione della disintermediazione) che distrugge posti di lavoro piuttosto che crearne.

 

Si parla molto di bail-in, di capitale, di crediti deteriorati, di regole di Basilea ma la verità è che oggi al sistema bancario italiano, con tutto il rispetto per i suoi amministratori delegati, non mancano solo i soldi e non mancano solo alcuni decimali nel valore delle azioni ma manca molto più semplicemente e drammaticamente un disruptor che – come è stato Silvio Berlusconi con il centrodestra, come è stato Matteo Renzi con il centrosinistra, come è stato Sergio Marchionne con il mondo imprenditoriale italiano, come potrebbe essere Urbano Cairo con il mondo dell’editoria – faccia uscire definitivamente il mondo della finanza dall’era del televideo attraverso due passaggi purtroppo traumatici: un nuovo modo per fare soldi, business appunto, e l’utilizzo di un linguaggio di verità sullo stato del sistema bancario italiano.

 

Fino a quando banche importanti come Unicredit piuttosto che pensare ai prossimi vent’anni penseranno ai prossimi venti mesi e si limiteranno semplicemente a fare cassa commettendo lo stesso errore commesso nel passato da Monte dei Paschi – e cioè mettendo in discussione il possesso di alcuni gioielli di famiglia (magari le partecipazioni nella banca polacca Pekao, magari la presenza sul mercato turco in uno dei più importanti istituti bancari del paese, Yapi Kredi, magari la stessa Fineco) solo per nascondere i problemi sotto il tappeto dell’una tantum – non potranno andare molto lontano e continueranno anzi inevitabilmente a navigare accontentandosi di una scialuppetta di salvataggio.

 

L’impressione che deriva da alcune grandi nomine decise nelle banche è che in molti casi (Unicredit soprattutto) la scelta degli azionisti sia stata dettata più dalla volontà di mantenere saldo lo status quo, ovvero di dare una spennellata al televideo, piuttosto che pensare al modo giusto di rivoltare come un calzino il nostro sistema bancario, prendendo atto che il modello così non funziona, che gli sportelli sono troppi, che gli impiegati sono troppi, che i costi sono troppo elevati e che sarà inevitabile tagliare nei prossimi anni migliaia di posti di lavoro (le stime ottimistiche dei sindacati dicono che nel prossimo triennio dovranno essere tagliati almeno 19 mila posti di lavoro).

 

Serve una rivoluzione alla Marchionne e serve in un certo modo entrare nella terza repubblica delle banche. La prima repubblica bancaria fu spazzata via nel 1993 proprio da Carlo Azeglio Ciampi, artefice chiave di una delle principali modernizzazioni del sistema bancario italiano (le privatizzazioni). Con la riforma sponsorizzata e voluta da Ciampi i consigli di amministrazione delle banche cominciarono a occuparsi più di business e meno di status quo e iniziarono a poco a poco ad aprirsi ai mercati internazionali (riforma in un certo senso completata oggi dal governo Renzi con la riforma delle banche popolari), ma per arrivare alla terza repubblica serve qualcosa di più. E senza un Marchionne che metta da parte l’era del televideo delle banche la terza repubblica della finanza italiana continuerà a essere solo un miraggio impossibile da raggiungere dalla nostra povera e sgarrupata scialuppetta di salvataggio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.