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Abbasso gli eroi e in alto le vittime: la loro sofferenza è la più grande. Il libro del filosofo Bruckner

Francesco Chiamulera

La vittimizzazione di sé, consumata in fretta e furia, esibita a comando ed esercitata come ricatto sugli altri, prende la fretta vertiginosa della nostra condizione di martini postmoderni. "Soffro, dunque sono”

Deliziosa condizione, quella degli emancipati che continuano a vestire i panni dell’oppresso! Posizione ideale, quella degli oppressori che si fingono vittime!”. C’è un libro che è uscito mercoledì in Francia e che già scatena la fantasia di coloro che assistono allo sport preferito delle società del XXI secolo: il tramonto degli eroi, l’alba gloriosa dei perseguitati, la sostituzione degli atti esemplari di coraggio e abnegazione con l’esibizione dei torti subiti, le vere vittime obliterate e oscurate dai vittimisti. Ci sono tutti, proprio tutti i personaggi dell’orrore che infestano i nostri incubi di occidentali, nell’ultimo libro di Pascal Bruckner.

ll presidente algerino che chiede 132 anni di visto in Francia per ciascuno dei propri connazionali quale riparazione per i torti coloniali e contemporaneamente inneggia a Putin “amico dell’umanità”, i woke che fanno dell’indignazione un abito perenne, gli attivisti lgbtq+ che si scordano dei fratelli oppressi in Cecenia, a Gaza, in Turchia, i francesi sindacalizzati che si dipingono come i nuovi resistenti contro la riforma delle pensioni con toni da carboneria, salvo sospendere la collera il venerdì per saltare sull’automobile verso le spiagge del Midi, Edward Said e i suoi discepoli (tra cui Sepulveda) il cui massimo obiettivo era che i palestinesi prendessero il posto degli ebrei sul podio della vittima, “dieci, cento, mille Olocausti”, e poi suprematisti bianchi e neri, islamisti radicali, virilisti rancorosi, neo femministe arrabbiate, ecologisti furiosi, panslavisti russi, neo ottomani revanscisti, trumpiani vendicativi, no vax con la sindrome del perseguitato perenne. 


Il ritratto della vittima che si prende tutto il palco è di Bruckner, filosofo francese che in questi anni ha tenuto i fili dei molti ragionamenti sull’oscuro odio di sé degli occidentali, coniando altrettante formule genialmente riassuntive, “la tirannia della penitenza”, “il singhiozzo dell’uomo bianco” e così via. Ma se è almeno dai tempi della Versione di Barney e delle sue liberatorie idiosincrasie che facciamo l’elenco di questo e quel tic di vittimizzazione, piagnisteo, ipersuscettibilità, Bruckner fa un passo in più.Sistematizza, collega, connette. Il ritratto d’insieme è al tempo stesso sconfortante e grottesco, cioè si ride molto, quasi a ogni pagina, ma solo perché l’estremismo raffigurato non è una forzatura retorica dell’autore ma questione di far semplicemente parlare i protagonisti. Je souffre donc je suis, “Soffro, dunque sono”, proclama il personaggio bruckneriano nel titolo dell’edizione francese con Grasset (320 pagine), titolo che nella sua sintesi perfetta ci si può aspettare verrà impiegato anche nell’edizione italiana, nei prossimi mesi per Guanda. Lo abbiamo letto e ne abbiamo parlato con l’autore, cominciando da un aneddoto rivelatore, nella sua apparente innocenza. 8 dicembre 2015: l’Eliseo annuncia che il presidente Hollande intende conferire la Legione d’onore postuma alle 130 vittime degli attentati del 13 novembre al Bataclan e negli altri luoghi delle stragi islamiste. Il Gran Cancelliere rispettosamente dissente: fin dalle sue origini (1802, ad opera di Napoleone Bonaparte), la Legione d’onore premia soldati e civili che hanno reso eminenti servizi alla nazione. “Le 130 persone innocenti falciate dalla barbarie jihadista che hanno avuto la sfortuna di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato meritavano il tributo della nazione in mille altri modi”, ragiona Bruckner: in Spagna una decorazione riconosce le vittime di attacchi terroristici, in America monumenti sono stati eretti alle vittime dell’11 settembre. “Ma la Legione d’onore dovrebbe premiare il merito. Una cosa è fare tributo alle vittime, un’altra è assegnare loro un’onorificenza riservata agli atti eroici. Per essere decorato, devi aver combattuto, non semplicemente essere stato abbattuto a caso”. Alla fine, l’Eliseo ha rinunciato all’idea e ha istituito la Medaglia nazionale per le vittime del terrorismo, accolta con freddezza da settori dell’opinione pubblica e dall’esercito. “Significava che subire un oltraggio o essere assassinati da fanatici aveva la precedenza sul rendere omaggio ai combattenti. Tanti sintomi significativi di un’attualissima confusione che già all’indomani della Seconda guerra mondiale aveva acceso un dibattito tra resistenti e deportati: la tortura inflitta vale più dell’impresa compiuta, lo sfortunato è più eroico del valoroso?”. Bel problema, dice oggi al Foglio Pascal Bruckner. 


Nelle tre parti in cui si sostanzia, il saggio si chiede dapprima come il messaggio dell’Illuminismo e del magnifico Settecento, quello di un mondo migliore libero dal fatalismo e dal fanatismo, abbia potuto condurre a una società, la nostra, di singhiozzi e fragilità e rassegnazione. Poi evidenzia come lo status di paria, una volta acquisito, consenta di detenere potenzialmente tutti i diritti, “soprattutto quello di accusare e opprimere gli altri in nome delle offese subite. Il vittimismo è guerrafondaio: più ci sentiamo dispiaciuti per noi stessi, più ci sentiamo giustificati nel punire coloro che designiamo come nemici”. Della terza parte diremo dopo. Bruckner ha cura di mettere subito in guardia, contro ogni lettura distorta del suo ragionamento, che le vittime, quelle vere, esistono, eccome, e soprattutto che “l’attenzione per gli umiliati è la grandezza dell’umanesimo”, a sua volta debitore del cristianesimo. Il quale ha spazzato via l’odio per i deboli – tristissima costante storica attraverso i millenni, il vae victis romano, la dannazione degli sconfitti – elevandoli: “Il colpo di genio del cristianesimo e la sua assoluta singolarità è l’invenzione di un uomo-dio che ha le debolezze del primo e la trascendenza del secondo. Con il miscuglio di dolcezza e aggressività che caratterizza i Vangeli, egli invita all’insurrezione contro i potenti che plasmerà l’intero mondo occidentale, comprese le grandi dottrine laiche della modernità. Questa quasi divinità dei vulnerabili costituisce prerogativa della civiltà”. La grandezza delle democrazie è questo spazio pubblico riservato alle vittime, i memoriali, la loro protezione e sacralizzazione. La loro ricomprensione nel recinto della ritualità laica. 


Però è un processo che richiede tempo. Cultura storica. Domande. Invece la vittimizzazione di sé, consumata in fretta e furia, esibita a comando ed esercitata come ricatto sugli altri, prende la fretta vertiginosa della nostra condizione di postmoderni. “Vogliamo incoronarci martiri, vedi i grievance study negli Usa, questi dipartimenti universitari fatti di reclami su tutti i tipi di categorie, persone grasse, donne, minoranze, persone queer, lesbiche, persone trans, e che si concedono questo titolo fin dall’inizio”, scrive Bruckner. “Armeni, deportati, schiavi, colonizzati, harkis, omosessuali hanno dovuto camminare a lungo per essere riconosciuti: noi non abbiamo più il coraggio di aspettare, vogliamo accedere all’istante al titolo di reprobi”, prosegue. “La sofferenza vende più del sesso. Ecco l’altra faccia del progresso, il cui esito finale è la cancellazione dei veri sfortunati a favore di una versione carnevalesca degli emarginati, la cui unica particolarità è possedere le connessioni e la notorietà che permettono loro di imporsi. Si impadroniscono della lingua degli oppressi per usurpare una posizione, entrano in una guerra di parole, prendono in ostaggio quegli oppressi, li rapiscono”.

I primi ostaggi sono, come al solito, gli ebrei. Citando i giuristi Lemkin e Lauterpacht, inventori rispettivamente del concetto di genocidio e di crimine contro l’umanità, Bruckner si avventura in un miserabile, penoso eppure necessario tour panoramico tra i vari contendenti che in questi decenni hanno costruito con le vittime della Shoah un rapporto di competizione, quando non di furto: dagli attivisti di Black Lives Matter che a San Francisco nel 2021 hanno esposto uno striscione, “dal 1619 al 1861, più di 15 milioni di africani venduti come schiavi e più di 35 milioni uccisi dai mercanti di schiavi, di gran lunga il più grande olocausto che il mondo abbia mai conosciuto”, al neonazista afroamericano Luis Farrakhan che diceva che “l’olocausto dei neri è stato cento volte peggiore di quello degli ebrei”, a Mahmoud Abbas, presidente della Cisgiordania, che ha accusato Israele di aver commesso 50 olocausti contro i palestinesi. “Ma in questo ambito i campioni del mondo restano i russi, nel 2017 una commissione della Duma ha rivalutato arbitrariamente il numero dei morti in guerra tra il 1941 e il 1945 da 27 milioni, numero considerato attendibile dagli storici, a 42”. “La stravaganza matematica è qui al servizio di un malcelato desiderio di potere, l’ebreo diventa il rivale da sconfiggere, usurpa un posto che dovrebbe spettare di diritto ai neri, ai palestinesi, ai musulmani, ai salafiti, alle donne, agli indigeni, eccetera”. 


Il ragionamento di Bruckner si prende ampi momenti di riposo dalla tragedia per farsi spassoso. Per esempio quando considera i ciclisti parigini che “ignorano le regole ordinarie, attraversano col rosso, imboccano le vie contromano, salgono sui marciapiedi, e il tutto in virtù di uno status privilegiato concesso loro perché rispettano gli imperativi del cambiamento climatico: possono lanciarsi addosso al bestiame umano senza gentilezza perché sono eroi della transizione ecologica”. Le neofemministe coi loro gingilli semantici, “strana alleanza tra estremismo e frivolezza”, che in francese pretendono che si dica “matrimoine” invece che “patrimoine”, “femmage” in luogo di “hommage”, addirittura “j’esmère” invece di “j’espère” (diremo quindi “esmadrillas” invece di “espadrillas”? si è chiesto Davide Tortorella). I grandi monoteismi con la loro perpetua fame di vittime, “il cristianesimo è una delle più grandi fabbriche di martiri, superata ai nostri giorni dall’islam che li produce in catena di montaggio, gli shahid, anche detti terroristi”. Le eterne lamentele dei no vax, che hanno dato il meglio, si fa per dire, nella polemica contro le limitazioni pandemiche, “e qui il premio va, ahimé, al filosofo Giorgio Agamben, che vede il nazismo ovunque tranne che nel nazismo: nel confinamento imposto in occasione del Covid, da lui definito questa ‘specie di influenza’ che giustificava lo stato di eccezione. Ha addirittura paragonato la tessera sanitaria alla stella gialla!”, ricorda stranito Bruckner. E ovviamente Donald Trump, che non contento di avere agitato una folla di potenziali golpisti contro il Campidoglio, al primo processo ha subito indossato la veste della vittima per dare al procuratore di New York dell’“agente della Gestapo”. 


Uno dei punti focali della lettura del libro è la duplicità non solo del carnefice che si traveste da vittima, ma della vittima che si fa carnefice, interiorizzandone metodi, obiettivi, visioni. Qui l’autore, citando le vertiginose pagine del grande Vasilij Grossmann, ricorda quel dialogo fantastico che in Vita e destino va in scena tra un ufficiale nazista prigioniero dei sovietici a Stalingrado e un bolscevico: “Se sarete voi a vincere, noi perderemo ma continueremo a vivere nella vostra vittoria”. Nella contemporaneità il fascismo veste spesso i panni dell’antifascismo, e il nazismo rivive in colui che ne ha fatto una propria ossessione retorica: Vladimir Putin, supremo denazificatore. “La barbarie non è mai così pericolosa come quando si avvolge nei simboli del martirio. Putin è un assassino di massa mascherato da evangelista”, scrive Bruckner, “un manipolatore la cui iniziale insignificanza, piccolo dirigente del Kgb a Lipsia traumatizzato dalla caduta del Muro nel 1989, ha ingannato il mondo. Salito al potere con un’unica ossessione, punire l’Europa per aver provocato la caduta dell’Urss, privo di talento oratorio, Putin non è né Pietro il Grande, né Hitler né Stalin, ma un prodotto di sintesi tra i tre. Prende in prestito il variopinto armamentario dall’Ortodossia, dallo zarismo l’ossessione per la grandezza perduta, dal comunismo e dal nazismo i rituali unanimisti e i massacri di massa”. La Russia di Putin contiene anche la giunzione ideologica tra imperialismo e fondamentalismo jihadista, nel comune odio verso l’occidente, di cui si propone di vendicare le vittime, con la medesima definizione: “Il grande Satana”, espressione ricorrente tanto in Soloviev quanto in Khomeini, tanto in Kadyrov quanto nei proclami dell’Isis. Affrontare il bispensiero e la neolingua dei totalitarismi del XXI secolo, che davanti alle immagini dei corpi torturati di Bucha arrivano a dire che si tratta di un montaggio cinematografico interpretato da attori che fanno una pausa sigaretta tra due scene o addirittura di crimini perpetrati dagli ucraini nei confronti dei propri cittadini, significa secondo Bruckner armarsi di una doppia corazza: morale ma anche semantica. “Con Putin, come con Hitler e con lo stalinismo, dobbiamo interpretare ogni frase contro il suo significato manifesto, abituarci al fatto che la violenza parla il linguaggio della pace, il fanatismo quello della ragione, l’aggressione quello dell’autodifesa, il colonialismo quello della protezione delle minoranze, il crimine contro l’umanità quello della sua prevenzione”. Quanti imperi sconfitti, Russia, Turchia, Iran, Cina si adornano dei simboli degli ultimi, parlano alle volatili opinioni pubbliche del sud del mondo “per abbandonarsi senza ritegno all’arroganza della riconquista?”. 


Dicevamo di una terza parte del libro. È quella che Bruckner riserva agli eroi. C’è modo, nell’occidente estenuato dalla ricerca minuziosa e ombelicale della memoria dei propri torti subiti, di porre nuovamente in uno spazio pubblico i casi di eroismo, individuale come collettivo? Bruckner parte dalla rivolta nel ghetto di Varsavia, “gli insorti lo sapevano, c’è una cosa peggio del male, è il disonore di non avergli resistito”, per menzionare figure luminose contemporanee, come Youssef Zyadney, tassista arabo israeliano che la mattina del 7 ottobre 2023 ha salvato una trentina di giovani ebrei dal massacro di Hamas; il soldato ucraino Oleksandr Matsievski, filmato mentre grida “Slava Ukraini” con una sigaretta nelle dita un attimo prima che i russi lo ammazzino; Arnaud Beltrame, poliziotto francese, fervente cristiano, ucciso da un terrorista islamista dopo che aveva preso volontariamente il posto degli ostaggi durante un attentato in un supermercato a Trèbes nel 2018. Gli eroi, dai ragazzi dell’Iran ai giovani che “in Ucraina, dal 2014 e soprattutto dal 24 febbraio 2022, lottano e muoiono per la libertà”, fanno decisamente impallidire la sindrome da principessa sul pisello che ha preso le democrazie in questi decenni. Ma non viviamo più nei dolci anni Novanta di Barney: è chiaro leggendo le ultime pagine del libro. La speranza è che ci si svegli in tempo. “Per tendere a un nuovo 9 novembre 1989, per abbattere il muro di tutte le tirannie, da Pechino a Mosca, da Teheran a Baku, senza dimenticare Ankara, Caracas, Algeri, L’Avana. L’Ucraina è un fragile barlume di speranza nel buio della barbarie. Non può cadere”.
 

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