Un edificio distrutto dai bombardamenti russi sulla linea del fronte a Orichiv, Ucraina (Andre Alves/Getty Images) 

La riflessione

Pace, Europa, occidente. Parole che ingannano

Andrea Graziosi

Usiamo alcuni termini in modo spesso ipocrita finendo così per confondere tutto il dibattito. Meglio intenderci su alcuni significati, per non andare fuori strada. Iniziamo con: pace, Europa, occidente 

Ci sono parole importanti che possono annebbiare invece che aguzzare la nostra capacità di vedere. Esse ci spingono perciò a fare scelte sbagliate, che vanno contro i nostri desideri e i nostri interessi, oscurando invece di chiarire questioni di cui rendono più difficile, anziché più agevole, la soluzione. Provo a discutere brevemente di tre di esse – pace, Europa, occidente – nella speranza che vengano usate in modo meno a-problematico. Pace, che tutti vogliamo, in Ucraina e a Gaza come nel Caucaso o altrove. Ma dire solo pace spesso equivale al riconoscimento del diritto del più forte. 


Nei nostri tre casi, per esempio, farlo significa sanzionare il risultato di un’aggressione, spalancando porte già malandate all’uso della forza tra stati a livello internazionale; rinunciare a vedere i problemi del medio oriente, occultando il desiderio illuminato dal 7 ottobre di sterminare gli ebrei e ostacolando la nascita di uno stato palestinese che non è – retorica a parte – desiderato da una parte consistente di gruppi dirigenti arabi, peraltro ostili a Hamas; acquiescere all’ennesima “pulizia etnica” di un’epoca che ne ha viste tante, piuttosto che cercare soluzioni che spengano i focolai esistenti. Sarebbe tuttavia sbagliato abbandonare il discorso sulla pace a chi lo usa in modo semplicistico, ricoprendo con un involucro attraente un idealismo ingenuo nei casi migliori, cinico, oltre che ipocrita, negli altri, e che ferisce sempre i deboli. A meno della vittoria della forza, che alcuni apertamente auspicano e cui l’ombra di Donald Trump già assicura il suo sostegno, la via per la pace è invece lunga e difficile e passa per dialoghi discreti, conferenze e trattative da promuovere ma certo non invitando gli aggrediti ad alzare bandiera bianca, come ha purtroppo fatto un Papa di nuovo costretto a smentirsi. Andrebbe piuttosto ricordato che i deboli hanno meno opzioni e quindi meno elasticità dei forti, che essi vanno quindi rincuorati, e che solo il tempo porterà allo scioglimento di nodi oggi tanto intricati, uno scioglimento che sarà tanto più vicino al senso di giustizia quanto meglio riusciremo a fare, cosa non facile nella situazione attuale.

È sbagliato abbandonare il discorso sulla pace a chi lo usa in modo semplicistico, ferendo sempre i più deboli


In Ucraina il presupposto necessario di ogni mossa è non riconoscere la legittimità di quanto conquistato con la forza, una condizione ripetuta anche dai vertici delle Nazioni Unite. Gli obiettivi possono essere poi diversi e scadenzati nel tempo, mirando prima a un congelamento della situazione che assicuri però all’aggredito le garanzie – militari, politiche e diplomatiche – indispensabili a che l’aggressione non riprenda. In medio oriente il percorso di una pace che non sia il premio alla violenza potrebbe passare da un ridimensionamento di Hamas seguito dalla repressione della colonizzazione illegale israeliana in Cisgiordania. La soluzione del riconoscimento internazionale di due stati dotati di loro confini è oggi l’unica via praticabile, ma andrebbe ricordato che si tratterà appunto di due stati abitati da persone diverse anche tra di loro, e non di due stati espressione di due popoli essenzialmente nemici, come pensano i nazionalisti integrali israeliani e palestinesi. Insomma, chi vuole la pace, dovrebbe sempre porsi il problema dei rapporti di forza e della direzione verso cui portano i passi che fa e le parole che pronuncia.  Su un piano più generale, parlare di pace vuol dire oggi porsi almeno tre grandi problemi.

In Ucraina il presupposto necessario di ogni mossa è non riconoscere la legittimità di quanto conquistato con la forza

Il primo è quello di una possibile, ancorché silenziosa, crisi della non proliferazione nucleare, uno dei frutti probabili di un mondo meno sicuro, in cui i più forti – che sono tali anche perché possiedono arsenali nucleari – sentono di poter agire a proprio piacimento spingendo, e non irragionevolmente, chi non ha armi atomiche a procurarsene se appena può farlo. Il secondo è agire perché il mondo bianco un tempo dominante, che include anche la Russia, accetti il mondo nuovo e diverso in cui viviamo: ciò vuol dire abbandonare i piani di tornare great again che hanno unito in questi anni la Washington di Trump, la Mosca di Vladimir Putin e la Londra della Brexit, vale a dire le capitali dei tre paesi vincitori del 1945, e fare in modo che essi non contagino anche gli sconfitti di allora, perché sono piani rovinosi e autolesionisti per tutti e non solo per chi li insegue, specie ma non solo sul lungo periodo.  Il terzo e ultimo è anche il più urgente: siamo in un mondo che ha di nuovo due superpotenze, cui se ne unirà probabilmente presto una terza, l’India, sperabilmente un domani una quarta, l’Unione europea, e poi forse una quinta, la Nigeria. Per ridurre i conflitti è necessario che esse si “riconoscano” tra loro come tali, come fecero Stati Uniti e Unione sovietica dopo la crisi di Cuba in un gioco in cui Kissinger capì di dover coinvolgere la Cina. Questo riconoscimento non implica rinunciare al giudizio critico ma, come successe allora, è la condizione per ridurre conflitti che oggi la sua mancanza alimenta. Ed è chiaro che il primo riconoscimento cui le persone, i governi e le diplomazie ragionevoli dovrebbero puntare è quello tra Stati Uniti e Cina.


Europa, di cui tutti amiamo parlare, è un termine che sarebbe invece meglio usare con grande prudenza, almeno quando ragioniamo di politica. Oggi non stiamo infatti costruendo l’“Europa” – una parola che rappresenta un sogno – bensì cercando di rafforzare uno proto-stato immaginato timidamente, ma con coraggio, nel 1992, la nostra Unione europea. Di questo e di quest’ultima dovremmo quindi parlare, cominciando col riconoscere che le condizioni straordinariamente positive che ne hanno permesso i primi passi sono purtroppo finite. Come mi ha scritto un appassionato e autorevole europeista, “la ratio originaria dell’integrazione – pace e prosperità interne [che si combinavano in] un gioco a somma (positiva) – presupponeva  condizioni  che  stanno venendo meno sempre più rapidamente. La sfida è enorme, resta da vedere se gli innegabili punti di forza guadagnati in passato possano fornire una leva per il cambiamento istituzionale”, una leva che però avrebbe comunque bisogno di “‘traghettatori’ politici di weberiana memoria” capaci di usarla.


Il perno della questione è quindi quello della costruzione statale, da intendere però in modo elastico. Come mi ha fatto notare un altro europeista appassionato e ancora più autorevole, se si rimane all’interno del discorso politico-giuridico elaborato dalla cultura europea è difficile persino “parlare per l’Europa di costruzione ‘statale’ [perché] anche nella migliore delle evoluzioni integrative”, essa stato “non lo sarà mai”. Per quel discorso, infatti, una confederazione non è per definizione tale: è appunto, e al più, una Unione.  Siamo qui al confronto binario tra l’ideale del federalismo europeo, che ha prodotto effetti positivi ma sembra destinato a restare tale, e il realismo gaullista di una Europa delle nazioni che è però riuscita, sia pure a piccoli passi e in condizioni eccezionalmente favorevoli, a farsi Unione. Ma il binarismo è spesso un cattivo maestro: nel mondo e nella storia sono esistiti migliaia di stati, di tantissimi tipi, spesso incarnati da progetti magari falliti o riusciti passando per più fasi e raggiungendo traguardi molto diversi dal previsto. Anche il mondo degli stati è insomma più vasto della nostra immaginazione e della nostra cultura. E’ quindi possibile prendere atto della realtà di una Unione che è di fatto una Confederazione “etnica” che non può più nemmeno essere considerata tale perché composta da paesi dominati sì da popolazioni native invecchiate, ma non più “etnicamente” omogenei perché in crisi demografica da cinquant’anni. Ma è anche possibile immaginare, o almeno sperare, che una nuova leadership politica sia spinta dalla nuova situazione e dai suoi pericoli, a solidificare quella Confederazione, facendone uno stato che, pur non essendo quello immaginato dal XIX secolo europeo (che era non a caso uno stato-nazione in senso stretto), abbia strutture operative che lo rendano capace di sopravvivere e agire, a partire da più efficaci meccanismi decisionali e dalla costruzione di una politica estera e militare. Per farlo quella leadership potrà partire dalle nostre forze, che non sono poche, ma dovrà soprattutto partire dai nostri problemi che sono tanti. 

Siamo al confronto binario tra l’ideale del federalismo europeo e il realismo gaullista di una Europa delle nazioni 


Occidente inganna perché dicendolo si adotta inconsciamente la posizione, insostenibile, che esistano una categoria e un oggetto privi di storia. Ma l’occidente di cui Spengler predicava il tramonto nel 1918 non era quello, vittorioso, del secondo dopoguerra, e quest’ultimo non è quello, nuovo, di cui avremmo bisogno. Il singolare andrebbe quindi senz’altro abbandonato e sarebbe meglio parlare sempre di occidenti, al plurale, senza per questo rinunciare al contenuto ideale e morale che ha accomunato ciascuno di essi, un ideale incarnato, pur tra ipocrisie spesso insopportabili, dalla valorizzazione, declinata in modi sempre nuovi, della libertà e della dignità umana. Storicizzare l’occidente ci permette prima di tutto di ragionare con più chiarezza sulle cause e le tappe della crisi di quello in cui siamo nati, generato dalla alleanza tra Stati Uniti, Gran Bretagna e un piccolo gruppo di paesi dell’Europa occidentale durante e dopo la Seconda guerra mondiale. È un’alleanza che ha avuto forti strutture, anche militari, come la Nato, i cui resti ci permettono di guardare con qualche speranza al futuro e ci garantiscono del tempo per costruirlo. 


Tra le cause c’è sicuramente il già ricordato distacco tra una comunità e poi una Unione europea che si è progressivamente e naturalmente allargata a est, e Stati Uniti che a partire dalla riforma dell’immigrazione del 1965 sono diventati sempre meno europei. Questo è stato possibile soprattutto a causa delle nuove dinamiche demografiche innescate dal benessere e in particolare del crollo delle nascite, che nel 1972 toccava già quasi tutti i paesi occidentali e la parte bianca della popolazione statunitense. Il boom successivo di una immigrazione che non poteva più venire dall’Europa ha cambiato così i lineamenti di quella popolazione, contribuendo a mutamenti anche culturali, peraltro anch’essi naturali. In questa prospettiva, il decennio chiave di una periodizzazione ragionevole appare con sempre più nettezza quello degli anni Settanta, aperti dall’abbandono della convertibilità del dollaro, simbolo della stabilità precedente a base americana, e chiuso dalle riforme di Deng Xiaoping, che hanno aperto le porte all’emergere della Cina, e dall’ascesa al potere di Khomeini in Iran con una rivoluzione che forse per la prima volta da alcuni decenni si ispirava a un passato ostile alla cultura “moderna”. In mezzo ci sono la crisi petrolifera del 1973, che segnala i mutati rapporti di forza generati da una decolonizzazione chiusa l’anno successivo dal crollo dell’impero portoghese; il Watergate e la sconfitta americana in Vietnam e in Africa, che convinsero Brezhnev che l’Urss aveva vinto la guerra fredda; e dichiarazioni come quella adottata dall’assemblea delle Nazioni Unite nel 1975 che equiparava il sionismo al razzismo e al colonialismo, testimoniando la crisi (gli Stati Uniti e altri paesi occidentali allentarono allora i loro rapporti con una organizzazione che avevano voluto e creato) di un sogno internazionalista che non si è più ripreso, se non e brevemente con le illusioni di un mondo unipolare e di nuovo dominato dall’occidente generate dal 1991.


Il crollo del mondo socialista, molto più fragile e malato del nostro, spinse infatti a molti a cantare vittoria, ma erano appunto illusioni fondate sul fatto che la maggior debolezza del “nemico principale” (per usare la terminologia sovietica) nascondeva la crisi, già avanzata e illuminata dagli anni Settanta, dell’occidente del 1945. Alla sconfitta del tentativo di esportare la democrazia, generata da quelle illusioni e già naufragato all’inizio del decennio successivo, seguì la crisi finanziaria e politica del 2008, che certificò (anche agli occhi di Putin) lo stato delle cose e aprì le porte a un declino – accompagnato dall’affermazione cinese e dall’ascesa indiana – che una vittoria di Trump potrebbe far entrare in uno stadio terminale. Vedere più occidenti, e cogliere la crisi di quello del 1945, ci aiuta quindi anche a guardare al futuro, facendoci scorgere la necessità di provare a costruirne uno nuovo, partendo naturalmente dai poderosi resti del precedente, ma trovando il coraggio di pensare a nuove alleanze internazionali, politiche e militari che rimpiazzino quelle nate ottant’anni fa per un mondo più piccolo e soprattutto diverso, e capaci di unire chi crede negli stessi principi al di là del suo colore e della sua collocazione geografica. 

Vedere più occidenti, e cogliere la crisi di quello del 1945, ci aiuta a provare a costruirne uno nuovo


Le parole sul cui uso e significato sarebbe anche politicamente necessario riflettere sono naturalmente molte altre, da immigrazione a razza, diritti, merito, popolo e invecchiamento in una lista che sarebbe facile prolungare. Gli eventi che stiamo vivendo rendono tuttavia necessario aggiungervi subito antisemitismo, una parola sbagliata non solo perché anche gli arabi sono “semiti”, o per gli errori generati dalla sua sovrapposizione al razzismo, quasi che antisemitismo fosse ancora una parte capace di rappresentare questo tutto, come forse era nell’Europa del primo Novecento. Soprattutto, il suo uso acritico ci impedisce di vedere una cosa precisa, che finiamo così per sottovalutare. Penso all’avversione e all’odio specifico per gli ebrei, la cui estensione e la cui intensità sono davvero straordinarie visto che si tratta dello 0,2 per cento della popolazione mondiale. Sarebbe quindi opportuno cominciare a parlare specificamente di antiebraismo che è anche, ma non solo, manifestazione di un antisemitismo che pure esiste, e colpisce anche gli arabi, e parte di un fenomeno molto più generale, il razzismo, con cui non può però essere identificato.

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