Paolo Macry

facce dispari

Paolo Macry: “Ci dovremo abituare alla fine della pace”

Francesco Palmieri

Intervista allo storico: "L’Europa è a un bivio epocale dopo ottant’anni di pax sostanzialmente pagata e garantita dagli americani. È difficile passare da questa mentalità di pace intrisa di pacifismo alla brusca prospettiva della costruzione della sicurezza. Non è la guerra, ma è necessario prepararsi a una difesa in armi dei confini"

Come una Bella addormentata è l’Europa occidentale, che si risveglia non dopo i cent’anni della fiaba, ma dopo un’ottantina di pacifico sonno, e non per bacio di principe ma per lo strattone di uno zar che avvicina la guerra al suo letto incantato. Se si dovesse raccontarla ai bambini, la metterebbe più o meno in questo modo lo storico Paolo Macry e loro capirebbero. Ma bisogna spiegarlo all’opinione pubblica e qui le cose, Macry non è ottimista, si complicano un po’ di più.

Perché si complicano?

È visibile a occhio nudo la sostanziale lontananza dell’opinione pubblica dalla politica e ancor più dai temi geopolitici. È un fatto problematico, perché è evidente che serve come l’aria il ritorno di una coscienza geopolitica in tutta Europa. Il tema della sicurezza e del rapporto tra guerra e pace è diventato centrale e non è disputabile solo in termini ideologici, ma con le politiche di bilancio. Garantire la sicurezza sarà molto costoso.

 

Vuol dire che risulta impopolare?

Oggi discutiamo ancora dei danni finanziari procurati dal superbonus al bilancio pubblico, ma in prospettiva si dovrà parlare dei miliardi di euro da destinare alle politiche di riarmo o di coordinamento della difesa europea. Naturalmente si continuerà a dibattere sui fondi per la sanità o il welfare, ma cambierà l’agenda politica. I soldi per la sicurezza diventeranno la priorità e non so per quanto ancora si potrà far finta di niente: non è più fantapolitica, ma l’opinione pubblica non ci è abituata e chissà come reagirà. Soprattutto in Italia.

 

Qual è la peculiarità italiana?

Siamo stati prima di altri il laboratorio dell’antipolitica e del sovranismo, perciò la nostra è un’opinione pubblica disintermediata e piuttosto selvaggia. L’Italia è il paese delle montagne russe: s’incassano grosse percentuali elettorali e dopo tre o quattro anni si sprofonda nel baratro. Adesso però è il tempo di scelte radicali: l’ipotesi di Macron sull’invio di truppe occidentali sul campo sarà pure una boutade buttata lì, ma il problema che pone è reale. L’Europa è a un bivio epocale dopo ottant’anni di pax sostanzialmente pagata e garantita dagli americani. È difficile passare da questa mentalità di pace intrisa di pacifismo alla brusca prospettiva della costruzione della sicurezza. Non è la guerra, ma è necessario prepararsi a una difesa in armi dei confini. Se gli europei non ci avevano pensato figuriamoci gli italiani, che hanno condito per decenni questo privilegio di pace con gli umori di stampo sovietista del partito comunista più grande d’occidente e con quelli di un universalismo di matrice cattolica.

 

Rileva ambiguità, o antichi “umori” persistenti, nelle forze politiche italiane?

Siamo tutti contenti che il parlamento abbia approvato in modo bipartisan la missione nel Mar Rosso, anche se la difesa dei nostri mercantili dovrebbe essere una ovvietà. Ma tra uno o due anni, quando ormai sarà chiaro se Putin avrà vinto o perso in Ucraina e l’Europa sarà chiamata a scelte più impegnative, allora si vedrà come si comporteranno i partiti e le brave famiglie italiane all’atto di deliberare un robusto aumento delle spese militari, anziché piccole modifiche di bilancio a scopi elettorali. Spero si capirà che le guerre non sono serie televisive, ma una realtà vicina a casa nostra.

 

La linea del governo sembra netta sia sull’Ucraina sia sul Medio Oriente.

Lo è perlomeno la posizione personale della premier, perché è evidente che sui rapporti con Bruxelles e Washington ha costruito la sua credibilità. Forse è stata costretta a farlo, però credo che la svolta finiana di Fiuggi sterilizzò davvero certe posizioni antioccidentali minoritarie presenti nella classe dirigente della destra. Ci sono ben più tensioni nella Lega, anche se Salvini mi sembra, un po’ come Conte nell’altro schieramento, un leader che fiuta il vento e adatta le strategie alla raccolta strumentale del consenso. La maggiore incognita resta il Pd proprio per le componenti storiche affluite nel partito, che spiegano perché Elly Schlein su certi temi spacchi il capello in quattro.

 

Nel pettine del conflitto di Gaza quanti nodi nei capelli sono rimasti?

Non sono specialista di Medio Oriente, ma credo che la nostra opinione pubblica, pur soffrendo molto meno di antisemitismo rispetto a Paesi come la Francia, risenta ancora dei decenni in cui l’Italia strizzava furbescamente un occhio a certe componenti del mondo arabo e alla vecchia Unione Sovietica. Quell’atteggiamento di generico antimperialismo, ma sostanzialmente antiatlantista o antiamericano, riaffiora contro Israele nelle manifestazioni filopalestinesi a prescindere dai massacri del 7 ottobre. È un atteggiamento che durerà finché ci saranno quelli cresciuti nel Paese del più grande partito comunista europeo, anche se s’apre un’epoca che neanche la mia generazione ha mai vissuto. Non siamo in guerra, ma è finita la pace in cui ci siamo gingillati tutti. Per quanto fatichiamo a prenderne atto, non possiamo essere l’anello debole del continente né chiuderci nel nostro piccolo mondo interno. La politica delle relazioni internazionali porta la ‘P’ maiuscola.

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