Cosmo (LaPresse)

alle origini

“Antipop” è la storia di Cosmo. Tra debolezze, crisi e vita vera

Stefano Pistolini

Amore per la musica, crisi e vita vera. Finalmente un biopic senza aureole. Il film diretto da Jacopo Farina è una piacevole sorpresa in un momento  poco brillante per la documentaristica musicale

In un momento florido ma poco brillante per la documentaristica musicale, una piacevole sorpresa arriva da “Antipop”, biopic diretto dall’esordiente Jacopo Farina, in cui Marco Jacopo Bianchi, in arte Cosmo, racconta la storia del suo indefesso amore per l’arte dei suoni. Chissà perché, almeno per ciò che riguarda le produzioni italiane, questo genere di storie hanno preso tutte una piega incongrua e nel complesso inaccettabile, tra il laudatorio e l’elegiaco, nemmeno fossero i resoconti filmici d’una galleria di santi di ieri e di oggi, forse sulla base delle pressioni degli artisti stessi o di chi li rappresenta, nel tentativo di storicizzarne ritratti benigni, stilizzati e ripuliti da ogni traccia di contraddizione, errore, caduta. Il bello è che al pubblico e ai fan più affezionati, interesserebbe scoprire proprio quel genere di cose dell’artista che ammirano – le sfide più dure, i suoi punti deboli, i cedimenti, i momenti difficili, le crisi e la difficoltà nel rialzarsi, la vita vera, insomma.

Ma evidentemente, a forza di ubriacarci di social, non è un gran momento per chi si occupa di strategie d’immagine, come raccontano le ultime cronache. E ci tocca sorbirci questa pletora di produzioni attorno a divi della musica italiana dove tutto è levigato, ovviamente commovente e nelle quali il protagonista di turno è rievocato come un illuminato, sulla strada del premio eterno. Ecco: il modesto Cosmo, no.  Questo è già un merito. In particolare a lui e alla sua crew dev’essere sembrato più interessante raccontare come davvero tutto è cominciato, da dove viene, cosa c’era prima e all’origine di quello che sarebbe diventato un personaggio di culto della nostra scena. Quindi si viaggia a Ivrea, Piemonte profondo, anni Novanta, un gruppetto di ragazzini scalmanati, assetati di esperienze, avventura e di moltissimi alcolici. Ci sono mamma e papà di Marco, lei una presenza positiva e incoraggiante e perfino una body builder, lui un uomo più complesso e contraddittorio, con una vena pazzoide e il debole per le cose pericolose, al limite dell’irregolare.

E’ un universo umile ma permissivo, nel quale Marco cresce con un alto coefficiente di libertà e uno, altrettanto elevato, di timore: quello di finire, prima o poi, a incolonnarsi ai cancelli della fabbrica, dove la vita si tramuta in un ciclo obbligato, un turno uguale al precedente. E’ strano assistere oggi a questo turbamento, che pure ha costituito un leitmotiv di un’Italia che ci stiamo dimenticando: i figli delle famiglie dove l’ordine e la frugalità andavano a braccetto, venivano spediti in fabbrica, spesso nella stessa dove faticava il padre e che da anni li sfamava, che sempre sia benedetta. Resistenze non se ne accettavano, pena la scomunica. Poi il mondo, e anche le fabbriche, sono cambiate. Marco ad esempio vuole starne lontano e si concede una licenza dopo l’altra per provarci, tutte a base di musica: forma un paio di band (i Melange e i Drink to Me), si esibisce in giro per il territorio, si scatena con gli amici a provare nelle casette dei genitori, consuma le provinciali su macchine piene di fumo e musica, s’impietrisce quando uno di loro finisce ammazzato in un incidente, ma ricomincia, cresce, tenta e vuole con tutta l’anima trasformare quelle canzoni in un lavoro. Così migliora, inventa un suono proprio, anche se in pochi se ne accorgono, un trance pop bello, ipnotico, romantico. Non succede niente, è sul punto di arrendersi, di restituire al mondo e alla famiglia ciò che ha cercato di trattenere per sé, ovvero il tempo per farcela, valore inestimabile, destinato a non tornare più indietro. A quel punto succede ciò che si può scambiare per un miracolo e che invece è soprattutto conseguenza di un impegno e di un’ostinazione: pubblica “L’ultima festa” nel 2016 e lo battezza come l’album della staffa e o la va o la spacca, la chitarra diventerà un hobby del weekend. E i ragazzi italiani si accorgono di Cosmo, lo eleggono a eroe istantaneo, incarnazione di un modo di vivere l’individualismo nell’Italia di oggi, che somiglia a com’era molto tempo fa, quando essere indipendenti e creativi era una estrema ma insopprimibile esigenza di diversità.

 

Cosmo funziona, i dischi vendono, i concerti diventano eventi, attirano vere moltitudini. Il film più o meno si ferma qui, alla descrizione magica del suono che è ciò che ti fa vivere, ti fa alzare dal letto, ti apre le porte della percezione, ti connette con gli altri. Ci viene risparmiata la celebrazione. A Ivrea, città di fabbriche, industrie e campagne che venera san Olivetti, può capitare di sentirti estraneo a ciascuno di questi contesti. Sei un eterno ragazzo nato per cantare, che in una certa Italia somiglia a dire un perdente sfaccendato. Invece, per fortuna, le cose possono andare diversamente. “Antipop” è una parabola allestita con interviste fatte oggi e tanti materiali lo-fi registrate negli anni dai ragazzi con le loro videocamere. Ha il sapore della sincerità di un protagonista si fa chiamare Cosmo ma non pretende niente di stellare, se non il diritto di proteggere le proprie inclinazioni e i suoi desideri.  Lo potete vedere in streaming su Mubi.
Stefano Pistolini
 

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