Georges Simenon - foto Wikipedia

A tu per tu con i destini umani

A Georges Simenon sarebbe piaciuto anche fare il dottore

Marco Archetti

Una conferenza del ’62 in un sottilissimo librino Henry Beyle, il primo dello scrittore a non essere della casa editrice Adelphi: "Se avessi fatto il medico"

Primo Simenon extra Adelphi: è già una notizia. Altre ne seguiranno, tutte nel testo. Che si intitola, non a caso, "Se avessi fatto il medico". Una sliding door simenoniana? Più o meno, ma in forma di allocuzione ai partecipanti del IV Congresso della Federazione internazionale dei medici scrittori. Siamo a Montreux, anno 1962. Presidenza onoraria al Nostro che, in apertura di discorso, si rammaricava di non poter appartenere a pieno titolo alla categoria. 

Ma veniamo al pregevole, sottilissimo librino: tiratura in 600 copie cartacee e già disponibile sul sito dell’editore Henry Beyle in carta di puro cotone delle Cartiere di Sicilia (copertina in carta lana, Collana Quaderni), sono trentasei pagine che sembrano molte di più. E non perché si trascinino, anzi, finiscono non appena le si è cominciate. Ma perché i simenoniani di stretta osservanza troveranno un paio di allusioni toccanti – una per tutte, quella con cui si apre questa conferenza: "Avrei voluto fare il raddrizzatore di destini, gli uomini da soli non sanno rimettersi in piedi" – e, qua e là, il classico stile-Simenon, ossia quel misto di conoscenza delle umane cose, pietas mai pietosa, vigore di tratto, senso degli indizi. "Cosa sarebbe successo se la morte di mio padre non mi avesse costretto ad abbandonare gli studi? Avrei scelto la carriera di medico?". L’elenco dei medici scrittori, nella storia della letteratura, è lungo: da Cechov a Rabelais, da Schiller a Schnitzler, da Munthe a Keats. Giorni felici, direbbe qualcuno, oggi imperversano i medici che pubblicano: con le “memorie del Covid” – i sottotitoli più frequenti erano “racconti dalla prima linea” oppure “verità negate” – ci si arredano le prime linee del circuito stocker / remainder o i capannoni del macero. 

Inevitabile, breve e allarmata nota a margine: un giretto su un noto sito di libri e si scoperchia l’orrore che si credeva superato, dimenticato, definitivamente metabolizzato: le letture astrologiche del Covid, roba tipo “il vaccino come atto spirituale”, la “Grande Reinizializzazione”, manuali di prodotti naturali per “guarire dal Covid”, Covid e cambiamento climatico, il tempo sospeso come grazia e dono di Dio, Bergamo resiste, il medico racconta, il pericolo dei vaccini, diario di un medico sul fronte pandemico, covidismo come nuova religione. Aridatece il mite dottor Glauser, medico termale. E insomma, per parafrasare e completare questo titolo simenoniano: se avessi fatto il medico, avrei dato i numeri

E in un certo senso Simenon ha proprio questo tipo di presentimento. "Eccoci nel XX secolo più turbati che mai", dice alludendo al problema dei problemi. “Siamo al punto in cui mi chiedo se non ci stiamo avviando verso una situazione paradossale: se i medici che, una generazione dopo l’altra, hanno lottato per la dignità fisica e morale dell’uomo, non rischino di diventare le prime vittime della sua emancipazione". Non è tutto: un’altra intuizione dei termini in cui talvolta, oggi, si dibatte, quando lo scrittore si chiede ironicamente: “Il gourmet che accumula colesterolo, non divora, insieme a esso, anche il bilancio dello stato?”.
I personaggi di Georges Simenon, tra le numerose qualità narrative di cui sono dotati, ne hanno una rara: un corpo. E infatti lo scrittore ce li racconta sempre così, sub specie corporea. Hanno freddo, hanno fame. Nel fondo del loro animo ribollono veri, prepotenti desideri. E spesso sono proprio medici. Si pensi al dottor Bergelon e al chirurgo Mandalin e a quel parto che finisce male; oppure al dottor Edouard Malempin e al dottor Hans Kuperus, il protagonista de L’assassino, che ammazza moglie e amante e si porta a letto la domestica – un romanzo molto bello, un inizio forse un po’ didascalico ma poi parabola molto umana, fatta di desideri piccini e di vendetta personale come iperbole patologica di (una) giustizia. "La verità – svela Simenon durante il discorso di Montreux – è che noi e voi, romanzieri e medici, guardiamo l’uomo dallo stesso scorcio prospettico".

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