Martin Amis - Ansa  

La recensione

"La storia da dentro", le belle frasi non fanno un romanzo ma un diario. E potrebbe essere anche meglio

Alfonso Berardinelli

L'ultimo libro dello scrittore Martin Amis: tra l'autobiografia romanzata, i dialoghi e variazioni sul tema 

Una reazione letterariamente un po’ patriottica? Eccola: non vedo perché ci si deve precipitare a leggere i nostri contemporanei scrittori inglesi se loro, nel loro insulare, imperiale provincialismo, non leggono noi e vivono beati e fieri della loro culturale autarchia. Non dico che la nostra letteratura attuale sia molto attraente (non lo è), ma anche negli ultimi tre decenni qualcosa di leggibile, in un genere o nell’altro, forse lo abbiamo prodotto, e comunque gli inglesi ignorano quasi tutto della nostra cultura novecentesca. Neppure Svevo e Elsa Morante, Saba e Penna, Pasolini e La Capria fanno parte dell’elementare patrimonio di letture del lettore medio inglese mediamente colto. Per loro, come per il più analfabeta dei turisti, l’Italia è il Colosseo e Michelangelo, le spiagge della Sardegna e le ville della campagna toscana.


Mi è arrivato l’ultimo libro di Martin Amis "La storia da dentro" (Einaudi,  681 pp., 25 euro) e dico libro perché non è facile capire che cosa sia questo fluviale e spesso vacuo sproloquio. Pretende cioè di essere sia un’autobiografia che un romanzo, non essendo onestamente e tecnicamente né l’una né l’altra cosa. Sembra che Martin Amis, come suggerisce la troppo giovanile foto di copertina, sia rimasto sempre il ragazzo scapigliato, nevrotico e viziato che era. Narciso naturale e anche inconsapevole, i cui prerequisiti cultural-mondani che gli garantiscono un’aureola magnetica sono che è nato a Oxford, è vissuto fra Londra e New York capitali del mondo, padre scrittore Kingsley Amis, che fu tra gli “angry young men” anni Cinquanta e Sessanta; i suoi amici Salman Rushdie, Julian Barnes, Ian McEwan, Kazuo Ishiguro, tutti più dotati di lui; e suoi fondamentali punti di riferimento il paterno Saul Bellow, il simpatico, umano Philip Larkin e l’incontenibile coetaneo giornalista e pamphlettista Christopher Hitchens, tanto esuberante quanto pugilisticamente fazioso.
Di quest’ultimo si parla molto nel libro. O meglio è presente come suggeritore, consigliere e maestro di opinioni politiche. Ma Amis mi pare che ne esageri le capacità di pensare sempre la cosa giusta. Hitchens, per esempio, ha sentito il bisogno di “stroncare” in un intero libro madre Teresa di Calcutta, impresa troppo facile per un ateo trotzkista e nello stesso tempo fallimentare (i credenti non daranno mai retta a Hitchens, i non credenti non avevano bisogno di leggere un tale libro per rimanere indifferenti). Ma anche il libro che ha dedicato al suo autore preferito, intitolato La vittoria di Orwell, nasce da un’intenzione infantilmente competitiva, secondo cui Orwell è importante perché è un “vincente”. Non lo era, non lo è mai stato, non lo sarà. Bisogna semmai augurarsi che non vinca e che le sue profezie non si realizzino: se così fosse saremmo in un terrorizzante, magari aggiornato 1984.


Fin qui le ragioni dell’autorità mondano-letteraria di Martin Amis, che ovviamente, per forza di cose, non è certo uno stupido, né uno sprovveduto e privo di talento, altrimenti non apparterrebbe al suo ambiente.

 
Ma qui ho a che fare con un suo libro diciamo narrativo ma non troppo, di quasi settecento pagine, e mi chiedo, dopo aver letto le prime cento, se andare avanti e perché. Ma ho a portata di mano un poco nobile ma utile perché, ed è la mia notevole antipatia per l’autore, natura e cultura, per il suo assai disinvolto modo di scrivere a ruota libera secondo le sue comode abitudini. Ricordo però una cosa di Amis che mi ha fatto una certa simpatia: in un’intervista alla Paris Review disse che per lui la narrativa nasce “dall’abilità di scrivere una bella frase inglese” e che gli bastavano due ore al giorno di lavoro per sentirsi soddisfatto, scrivendo “con una biro che funziona bene e dà il piacere infantile di carta e penna”. Mi pare che ci siamo. Le quasi settecento pagine della Storia da dentro sono state scritte proprio così: le belle frasi, le osservazioni interessanti, i ricordi, i dialoghi, le brevi riflessioni non mancano. E il personaggio di Hitchens esiste, almeno in parte, si vede, perché se ne raccontano gli ultimi mesi di vita.

Ma come fa Amis a dire al lettore: “Il libro che hai tra le mani si autodefinisce un romanzo, e io sostengo che effettivamente è un romanzo” (p. 414). Caro Martin che vuoi dialogare tanto liberamente con il lettore, allora io dico e sostengo che in realtà, di fatto, non è un romanzo, è nella migliore delle ipotesi un deposito, un magazzino, una collezione di frammenti, a volte articoli o brevi saggi piuttosto brillanti o semilavorati, altre volte discorsi iniziati che non crescono, non realizzano quello che promettono, per esempio dei buoni ritratti di un personaggio o di un altro. Il tuo libro, caro Martin, non è neppure un’autobiografia, è semmai un diario mascherato, dato che i diari non rispondono a nessuna precisa definizione di genere. Ma i diari non si vendono, gli editori non li vogliono. Vogliono merce che si compra, vogliono romanzi, anche cosiddetti romanzi. Oggi il romanzo (lo penso da anni) non è più infatti un vero genere letterario, è un genere editoriale. Tu, Martin, sei noto come narratore, uno dei quattro o cinque più noti narratori inglesi, tutti tuoi amici. E quindi se ti presenti agli editori con settecento pagine le vorranno certo chiamare “romanzo”. Ma tu, da autore, quando sostieni che il tuo è un romanzo parli da editore, se non da pubblicitario, di te stesso.

 
Comunque, sia chiaro: salvo rare eccezioni, oggi preferisco i diari ai romanzi. Meglio il materiale da costruzione allo stato grezzo, dato che sono pochi ormai gli autori capaci di costruzione e di stile narrativo. 
 

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