Il memoriale di Portbou, la lista di lettura e un ritratto fotografico di Walter Benjamin (Olycom). Elaborazione grafica Enrico Cicchetti

Genio e sventura. Non c'è intellettuale nel '900 più sfortunato di Walter Benjamin

Pierluigi Battista

Hannah Arendt diceva che era come se un terribile “omino gobbo” lo avesse preso di mira. L’amicizia con Scholem e il fastidio di Adorno. La sua originalità non si faceva incasellare dall’accademia. Un libro

 

Pubblichiamo un estratto da “I miei eroi. Un amore testardo e duraturo: Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell”, il libro che Pierluigi Battista ha dedicato ai grandi intellettuali del Novecento per conoscerne “le vite, i dettagli conturbanti ma vitali, i colpi della fortuna e, molto piu` spesso, della sventura che ne anno scandito le esistenze” (La nave di Teseo, pp. 176, 16 euro)


 

Poi, però, ci sono i grandi irregolari del Novecento che non ce l’hanno fatta, che sono stati sconfitti e a cui va tutta intera la mia simpatia: vulnerabili ma coriacei, solitari per forza e non per scelta, nevrotici nella loro ansia di indipendenza, sempre nei guai, meritano di non essere dimenticati. Come Walter Benjamin


Hannah Arendt coniò un’immagine molto dolorosa per raffigurare il dramma persecutorio che si era accanito sulla sua fragile figura: diceva che era come se un terribile “omino gobbo” lo avesse preso di mira, condannandolo fino agli ultimi sgoccioli di vita a un cupo e sconfortante destino di “malasorte”. E in effetti in questo racconto di irregolari e di anime solitarie Benjamin è il più sfortunato degli sfortunati, il più irregolare degli irregolari, il più solitario dei solitari, e soprattutto il più eccentrico degli eccentrici. Ricostruendo la propria biografia, egli stesso confessò di provare solo costernazione di fronte al “mucchio di cocci” che, rovinandogli addosso, gli avevano ostruito la strada per raggiungere un’esistenza magari non felice ma passabilmente soddisfacente. 

 
Benjamin eccentrico lo era, e in senso letterale. Inclassificabile, totalmente. Per me, è l’autore delle pagine più commoventi che si possano dedicare all’atmosfera e allo spirito di una città e dei suoi luoghi, quelle raccolte in un libro straordinario come Infanzia berlinese. Ma, sebbene Benjamin fosse tante cose insieme – ai miei occhi una grande, inestimabile qualità –, per i suoi numerosi detrattori questa qualità si rovesciava in un imperdonabile difetto: era troppe cose malamente incollate. Era tutto senza che gli venisse riconosciuto niente, come se il crudele omino gobbo avesse voluto infliggere una pena supplementare anche alla sua opera. Come collocarlo? Come incasellarlo? Come definirlo? 


“Non era allievo di nessuno”, disse Arendt. Non era un filologo, pur se impareggiabile nell’interpretazione rigorosa dei testi. Non era ufficialmente un traduttore, anche se fu il primo tedesco a tradurre Proust. Sebbene non credesse in nessun dio, conosceva alla perfezione i testi teologici e di contenuto religioso, tuttavia non era un teologo. Pubblicava sui giornali, ma era il contrario di un giornalista. Recensiva una quantità immensa di libri, ma non era riconosciuto come un critico letterario. Per decenni inseguì un’abilitazione universitaria nonostante l’accademia respingesse puntualmente i suoi lavori, adorati da Hugo von Hofmannsthal e cionondimeno considerati fuori da ogni canone persino da un saggista geniale come lo storico e critico d’arte Erwin Panofsky, perché eccessivamente sui generis. Sempre in bilico: troppo intellettuale per il giornalismo, troppo giornalista per l’università. Nel frattempo la sua vita era diventata una guerra contro l’indigenza: “Posso difendermi dalla persecuzione programmata, ma non dalla fame”. 

 
La malasorte 


Le ambizioni accademiche di Benjamin non erano alimentate dalla smania narcisistica di una cattedra, rappresentando piuttosto la via più sicura verso una minima stabilità finanziaria, dopo che l’inflazione nella Germania degli anni venti aveva prosciugato il patrimonio di famiglia. Per somma sfortuna, e cioè per la consueta intercessione in senso negativo del solito, onnipresente omino gobbo, ma anche per il dilagare in Germania del pregiudizio antisemita, e soprattutto per la cecità delle autorità accademiche spiazzate dall’inclassificabilità dell’autore di opere geniali e originali o persino di un capolavoro come Il dramma barocco tedesco, gli venne precluso un incarico in tutte le università presso le quali aveva presentato le sue credenziali, così potenti da riuscire ad assicurare una cattedra a chiunque tranne che all’uomo più sfortunato del ventesimo secolo: Heidelberg, Francoforte, Colonia, Gottinga, Amburgo. L’omino gobbo agiva con inflessibile ferocia e, come scrive Arendt, “giocava i suoi tiri malvagi” con una testardaggine bieca. E quando qualche editore proponeva a Benjamin l’assunzione per il progetto di una nuova rivista o di una nuova collana, era destino ineluttabile che uno dopo l’altro dichiarassero “bancarotta anche prima che fosse pagata la prima rata o uscito il primo numero”. 

 

Le sue ambizioni accademiche non erano smania narcisistica, rappresentavano solo la via più sicura verso una minima stabilità finanziaria

  
Potenza strafottente della malasorte, Benjamin venne liquidato bruscamente dall’amante, la regista lettone Asja Lacis, il giorno dopo aver comunicato a sua moglie Dora di volersi separare da lei, mettendo fine a esitazioni e ipocrisie. Momento peggiore per scegliere di parlare con sincerità e aprirsi con la moglie non poteva trovarlo. Ma per trovare i momenti peggiori Benjamin aveva un vero talento.

  

Il bibliofilo in fuga 


Ossessionato dallo spettro della fame e dell’indigenza, Benjamin non riusciva comunque a rinunciare, pur massacrato dai debiti, a uno stile di vita dispendioso se commisurato all’esiguità e sporadicità delle sue entrate. Sprecò il denaro racimolato grazie all’eredità paterna per colpa di una “smodata attrazione”, scrive uno dei suoi biografi, Wolfram Eilenberger, “per i ristoranti, i locali notturni, le case da gioco e le case di piacere”. Ma soprattutto frequentando i mercati antiquari di mezza Europa per soddisfare la sua insaziabile passione di collezionista di libri (“andava alle aste come se fossero sale da gioco”), con una predilezione spiccata verso quelli per l’infanzia. La sua biblioteca divenne imponente, con una collezione speciale, appunto, di volumi rari, possibilmente illustrati, dedicati ai bambini, e un’altra, ancora più eccentrica, di testi, decisamente più rari, che fossero opera di malati di mente, sebbene Benjamin non avesse una marcata attrazione per la psichiatria.

 

Non riusciva a rinunciare a uno stile di vita dispendioso. La passione per i ristoranti, i locali notturni, le case da gioco e le case di piacere

   

Quando decise di lasciare la Germania caduta nelle grinfie dei nazisti, che tra l’altro avevano chiuso l’emittente radiofonica tramite cui si procurava qualche residuo mezzo di sussistenza, cercò di portarsi dietro quante più casse di libri possibile (“la metà più importante” fu messa in salvo). E fu indicibile il dolore nell’apprendere che la sua biblioteca, qualche anno dopo, nella Parigi appena occupata da Hitler e da lui precedentemente raggiunta quale meta del proprio esilio, era stata requisita dalla Gestapo. Una tortura, il senso di uno spossessamento violento di quanto aveva di più caro, con le belve che calpestavano i suoi libri più amati: “Il pensiero doloroso dei miei manoscritti e del loro destino mi fa due volte male”. 

     
Benjamin, timido, esitante, neghittoso fino all’indolenza, che “di rado osava mettere il naso fuori delle sue quattro mura”, aveva deciso insomma, obtorto collo, con il pensiero fisso alla salvezza delle sue collezioni di libri, di diventare un uomo in fuga. Non voleva seguire le tragiche orme del fratello Georg, arrestato, torturato in campo di concentramento e che, incapace di sopportare le sevizie che gli venivano inflitte, alla fine si era tolto la vita gettandosi su un filo elettrificato del lager. Scelse dunque Parigi, ma era povero, cardiopatico, con un’infiammazione alla gamba dolorosissima, malanni che tuttavia non gli impedirono di scrivere uno dei suoi lavori più belli, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato dalla rivista dell’Institut für Sozialforshung, la Scuola di Francoforte che con Adorno e Horkheimer avrebbe trasferito la propria sede in esilio negli Stati Uniti, ribattezzandosi Institute for Social Research

   
Adorno, intransigente dottrinario infastidito da un saggio su Baudelaire che considerava troppo difforme dal metodo dialettico da lui abbracciato come un dogma imperativo, prese poi la decisione davvero crudele di interrompere anche l’esile flusso finanziario che rappresentava per Benjamin l’unico vero sostegno materiale della sua esistenza parigina: penultima espressione della diffidenza che il numero uno dell’Istituto francofortese coltivava per quel pensatore troppo eccentrico per i suoi gusti.

 

L’ultima pugnalata (postuma) sarà la pubblicazione sempre procrastinata dei manoscritti inediti, le Tesi di filosofia della storia che Benjamin, prima di morire suicida a Portbou sul confine franco-spagnolo, aveva consegnato ad Hannah Arendt. 

  

La maledizione del confine 


E furono proprio gli ultimi giorni di vita di Benjamin quelli in cui l’omino gobbo decise di sferrare il colpo finale con particolare efferatezza. Dopo aver scelto di essere un uomo in fuga dalla Germania nazista, Benjamin fu costretto infatti a essere un uomo in fuga dalla Francia nazificata. Dapprima, allo scoppio della guerra, lui e altri emigrati di lingua tedesca di età compresa tra i diciassette e i cinquant’anni (“gli stranieri tanto disprezzati”) furono stipati nello Stade de Colombes, poi deportati su autobus sovraffollati e sotto scorta militare e da lì, infine, smistati e inviati nei campi d’internamento dove Benjamin fu tenuto prigioniero per oltre tre mesi. Appena rilasciato capì che non c’era più tempo, doveva scappare a ogni costo. Solitario e con pochissimi amici (si scriveva molto con Gershom Scholem) peregrinò fino a Marsiglia, dove attese con trepidazione un visto d’emergenza per l’America che ottenne finalmente grazie alla (tardiva) chiamata dell’Istituto di Adorno. Bisognava salpare da Lisbona, dove già era arrivata Hannah Arendt con il fascicolo dei preziosi manoscritti inediti dell’amico che poi leggerà durante la lunga traversata atlantica, ma per raggiungere Lisbona occorreva un permesso d’espatrio, un visa de sortie, delle autorità francesi. Arrivò anche questo, e la salvezza sembrava vicina. 


Sembrava, ma non lo era. Benjamin si incamminò insieme a un drappello di fuggiaschi attraverso ripidi viottoli e sentieri in salita per raggiungere il confine spagnolo, a passo lento per via dei suoi problemi di cuore, con solo una borsa di tela a tracolla, e dopo aver trascorso la notte in un nascondiglio raggiunse il confine spagnolo a Portbou, una cittadina dei Pirenei catalani con “le montagne alle spalle e le scogliere a picco sull’oceano”. Ma la malasorte era in agguato e dopo tante peripezie l’omino gobbo si manifestò in tutta la sua perfidia: appena giunti al confine, i poliziotti comunicarono ai profughi che non potevano più entrare in Spagna dopo la revoca dei permessi decretata dalle autorità francesi proprio quel giorno, e dunque dovevano essere rigettati – è il termine più adatto – nella Francia ostaggio della svastica. 

  

La fuga dal nazismo, il suicidio al confine fra Francia e Spagna. Ha notato Arendt, “un giorno prima sarebbe passato senza difficoltà”

    
Benjamin era al colmo della disperazione. Nella borsa di tela aveva nascosto dosi massicce di veleno (“da uccidere un cavallo”, testimoniò Arthur Koestler che lo aveva incontrato prima della fuga) che ingurgitò per farla finita con la malasorte, per non essere più braccato, per liberarsi del carico di persecuzioni che gli aveva devastato la vita. Il veleno fece subito effetto e Benjamin morì in pochi istanti, da uomo in fuga senza più speranza. Potenza dell’omino gobbo, ha notato Arendt, “un giorno prima Benjamin sarebbe passato senza difficoltà, un giorno dopo a Marsiglia si sarebbe saputo che in quel momento non si poteva passare per la Spagna. Solo quel giorno era possibile la catastrofe”. 

  
Hannah Arendt immaginava che i manoscritti di Benjamin sarebbero stati accolti con cura da Adorno, che invece ne rimandò la pubblicazione per un tempo infinito, con grande angustia da parte di Arendt e Scholem (Adorno si giustificò sostenendo che “il carattere incompleto e abbozzato dei manoscritti” sarebbe stato palese). Adorno non aveva mai amato Benjamin, così come non amava affatto l’America che pure lo aveva accolto come esule (“si ha l’impressione che questa parte del mondo sia abitata dalle stazioni di servizio e dagli hot dog”). 


Di Benjamin, delle sue fughe, delle sue collezioni di libri portate via con affanno, dell’accademia che lo aveva stoltamente respinto, degli scritti che non era riuscito a pubblicare, dei creditori che lo inseguivano ovunque, delle amanti che lo maltrattavano, restano oggi le opere meravigliose create da uno dei più grandi irregolari del Novecento, oltre che un solitario monumento in suo onore a Portbou, nel luogo esatto dove aveva deciso di chiudere i suoi conti fallimentari con la vita. Nel giorno più sfortunato di una vita terribilmente sfortunata. 

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