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I libri degli altri /8 - Fine

L'ironia con molte qualità. Idee e consigli dalla Wunderkammer di Sabino Cassese

Marco Archetti

Rileggere Musil e Mann, che avevamo preso troppo sul serio a vent’anni. Sottolineare i libri e saper governare la biblioteca. Organizzare le giornate per fare tutto

Si conclude oggi la serie delle interviste di Marco Archetti a intellettuali, scrittori e “bibliomani” che negli ultimi due mesi, ogni settimana, hanno raccontato al Foglio i libri che li hanno formati e appassionati. Prima del professor Cassese abbiamo incontrato il filosofo Umberto Curi (“Libri che pensano”), la francesista Mariolina Bertini (“Alla ricerca di Proust”), il matematico Alfio Quarteroni (“Il romanzo della scienza”), la regista Andrée Ruth Shammah (“Leggere ad alta voce”), il giornalista Carlo Romeo (“Montaigne in mezzo al mare”), la designer tessile Lisa Corti (“Ogni sfumatura una storia”), il compositore Fabio Vacchi (“Il lettore renitente).


L’uomo senza qualità di Musil è un romanzo umoristico, e sa che non me n’ero accorto? Lo lessi per la prima volta tra gli anni Cinquanta e Sessanta. All’epoca mi era sfuggito questo aspetto, ma ora ne sono sicuro: va interpretato secondo il codice dell’ironia. Senza, è impossibile capire la sua profondità”.
Sabino Cassese parte fortissimo, circonfuso dalla luce che si riversa morbida dalle grandi finestre del suo grande studio, una Wunderkammer bibliofila affacciata su un una Wundernatur non meno strabiliante, decisamente wild. Forse troppo? Ci scherza su, mostra sullo smartphone la mappa del quartiere in cui vive e l’ansa del Tevere che lo lambisce e ne alimenta la vegetazione. “Colpa dell’incuria”, sbuffa amaramente – e infatti: vampe di verde, ciuffoni di bosco, proliferazione junglesca.

Ma dicevamo. Robert Musil. La seconda lettura? “Una decina di anni fa. Nel 2022 è toccato invece alla Divina commedia. E sa cosa le dico? Che Beatrice è una…”. La gestualità non promette niente di buono. “… pedante. La parola giusta è pedante. Lo è subito, al solo apparire, alla fine del Purgatorio. Liberiamoci di Beatrice!” Nemmeno il tempo di domandare se almeno di questo si fosse accorto o meno tra i banchi di scuola, che l’enumerazione prosegue: “E ho riletto più di una volta anche Thomas Mann, La montagna magica. Lì c’è un’ironia che non può sfuggire”. 

Vero. Del resto Thomas Mann mette subito le mani avanti. Nei primi capitoli scrive: “Non siamo qui per fare il panegirico di Hans Castorp”. Indelebile nella memoria la performance di questo Castorp non panegirizzato mentre, nel capitolo intitolato “La notte di Valpurga”, si dichiara alla Chauchat, una che “dimostrava dieci anni più di quelli che aveva, come capita spesso nei ritratti di dilettanti che vogliono essere espressivi. Tutto il viso era troppo rosso, il naso era delineato molto male, il colore dei capelli poco azzeccato, troppo color paglia, la bocca distorta, il particolare fascino della fisionomia o non visto o non reso”. 

Ma perché a vent’anni non cogliamo l’ironia? “Il fatto è che, inevitabilmente, mettiamo questi autori su un piedistallo,” ipotizza Cassese. “Anche le loro vicende personali influenzano il nostro sguardo. Parlando di Mann, penso al rapporto conflittuale col figlio Klaus. Quando si suicidò, non andò al suo funerale. La figlia Elisabeth, invece, sposò Giuseppe Antonio Borgese. Io ho un po’ studiato, negli ultimi anni, la figura di Borgese… Uno di quegli uomini che doveva essere, nella stessa misura, affascinante e repellente”. 

Quando Sabino Cassese dice “ho un po’ studiato”, non va preso alla lettera. Cassese non studia un po’: si dedica, si applica, è meticoloso, puntuale – basta guardare il suo studio, la stanza dove legge, scrive, pensa. Giurista, professore di Diritto internazionale, giudice della Corte costituzionale, conferenziere dei due mondi, corsivista e giurato Strega, dopo l’ammissione di avere in curriculum anche una conferenza sulle Variazioni Goldberg di Bach alla Nuovola di Fuksas, è inevitabile prendere il toro per le corna e chiedergli come faccia, col poco tempo a disposizione, a trovare quello per le gite fuoriporta. “Il segreto è rispettare una condizione: organizzarsi”. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir la virtute di un’agenda? “Da quando ero studente” annuisce e precisa Cassese – ed era studente del Collegio giuridico alla Scuola Normale di Pisa – “io ogni sera stendo il programma orario del giorno dopo. Me lo insegnò un professore. L’ho fatto anche ieri sera. Poi, ovviamente, lo rispetto alla lettera. Pensi che all’università ero perfino preso in giro perché, se anche mi fossi trovato nel più piacevole dei convegni (la mia consuetudine era con filosofici, matematici, chimici, fisici), io a un certo punto mollavo tutti e dicevo: devo andare!” 

Ma dicevamo. Borgese. “Scrive un romanzo, Rubè, negli anni Venti. Quando si laurea, fa la tesi e la manda a Benedetto Croce. Che la trova bella al punto da farla pubblicare – una storia della critica romantica in Italia. Diventa prestissimo professore di Storia della letteratura tedesca, poi di Estetica e Storia della critica a Milano, una cattedra che non esisteva, la creano per lui. Entra in rapporti con Mussolini e D’Annunzio. Dopo l’avvento del fascismo lascia moglie e figli e se ne va in America per un ciclo di lezioni a Berkeley. Non sapeva una parola di inglese eppure le sue lezioni erano gremitissime. Nel 1933 non firma il giuramento che il governo fascista aveva imposto ai docenti, venne dichiarato dimissionario, resta negli Usa e fa innamorare di sé la figlia di Thomas Mann, molto più giovane e carina, sposandola l’anno dopo averla conosciuta. Poi, una la scrive proprio con Thomas Mann, si dedica a opere che sviluppano un pensiero molto preciso, a proposito della nascita di una Costituzione mondiale. E’ da qui che io sono approdato alla lettura e alla conoscenza di Borgese. Affascina anche Calamandrei, che fa tradurre in italiano il suo Fondamenti della Repubblica mondiale. L’ha ripubblicata di recente

La Nave di Teseo, la prefazione è mia. Un manifesto di democrazia e di diritti, un secco rifiuto per ogni forma di totalitarismo. Una specie di Onu eletta dal popolo, per grandi regioni. Un macrofederalismo, con – ovviamente – un parlamento sovranazionale”. Cassese, uomo di grande effervescenza intellettuale e di indomito umorismo, capace di volteggiare intatto tra considerazioni altissime e dettagli di petite banalité, per un momento sembra non darsi pace. “Se le capitasse di vedere qualche suo ritratto, lo noterà di sicuro… Borgese era bruttino, a differenza di Elisabeth Mann che era pure un bel po’ più giovane di lui”. E poi plana – assecondando chissà quale zefiro menmonico o segreta traiettoria – su Chiaro di luna, racconto amato dell’amato Maupassant. “Lui è uno dei più abili nel raccontare l’incapacità di comprendere la percezione che del mondo hanno gli altri”.
Cassese è un conversatore, un virtuoso della divagazione colta, ed è difficilissimo riepilogare tutto quel che ha detto, scritto, fatto: autore della prima biografia di Bottai, al lavoro sul corporativismo fascista dal 1953, Cassese ha lavorato con De Felice, ricoperto incarichi importantissimi, corrisposto con Bobbio, presieduto commissioni, fondato istituti di ricerca, ha un curriculum lungo e autorevole come i manoscritti di Qumran e dà l’impressione di non aver passato un minuto di vita estraneo allo studio e ai suoi interessi. 

“E’ così. Sa cosa ho sempre spiegato ai miei allievi? Che i libri vanno letti solo in un modo: con una matita in mano. Io sottolineo anche a letto – righe stortissime, mai a penna. Perché dei libri bisogna impadronirsene. E l’unico modo in cui ci si riesce è trascrivendone dei brani. Io le potrei farle vedere due grandi contenitori…”. Si alza e va a colpo sicuro. Due schedari, uno rosso e uno blu. Il paradiso della citazione e dello stralcio: sul retro di carte intestate Senato della Repubblica e di altra, eterogenea e più modesta scartoffia, un’ornata calligrafia ripropone scorci thomasmanniani, digressioni marcelproustiane, paragrafi di epistolari, versi e lunghe frasi. “Ne ho molti, di questi. Adesso lo faccio un po’ più di rado e qualche volta, per pigrizia, copio dettando al computer… Sono i cari vecchi – aspetti, come si chiamano?” – e tentenna giusto tre secondi – “Sì! Loci communes. Pensi che del presidente americano Thomas Jefferson, uomo molto dotto, sono stati pubblicati i Books of Common Places: estratti che lui copiava dai libri che leggeva”.

Un sublime carotaggio della cultura universale. E qui, il problema del numero: come si governa una biblioteca? Come la si doma? “Io ho circa venticinquemila volumi e due criteri: la piramide e l’ordine alfabetico sparso. Ma ognuno ha il suo,” ridacchia mentre un tratto ilare, repentino e isaacsingeriano, guizza per un attimo nel suo volto. “Domenico Passionei, cardinale del Settecento che la sapeva lunga, proprietario della più grande raccolta di libri del suo tempo, aveva una strategia: tenerli nel più grande disordine. E aveva ragione. Siccome numerosi dotti tedeschi venivano da lui per consultarla, era l’unico criterio per impedire che glieli rubassero. L’ordine e il rigore avrebbero favorito il lavoro ai malintenzionati”. Indica alla sua sinistra: libri fino al soffitto. “Questi libri, della cultura francese, sono messi in un ordine che rispecchia la piramide dello Stato. Si va dai grandi problemi teorici”, e mima con le mani una terrazza vista cosmo, “e così via allo Stato, poi giù agli strumenti e alle strutture dello Stato, fino ad arrivare alle strutture periferiche”. Ma l’ordine alfabetico sparso? “Lei lo sa certamente che quello alfabetico è l’ordine più fasullo. Quando lei è arrivato alla Z, come fa a mettere un nuovo volume nella C, se ha tanti volumi già perfettamente allineati e pigiati? Il mio ordine alfabetico è un ordine alfabetico da cui si sono sfilate tre o quattro lettere, messe da un’altra parte”. 

Proseguiamo l’escursione. “Là ho i libri di Storia,” e indica alla sua destra – poi, tutt’intorno, palchetti carichi di codici, Diritto, Storia del diritto, normative, legislazioni, Garzantine, enciclopedie. E un altro appartamento, nello stesso stabile, pieno di letteratura. “Ho sempre letto molto, fin dall’università. Immutata la passione per certi epistolari, come quello di Alexis de Tocqueville, il fondatore della moderna scienza politica. Alcune sue lettere sono bellissime, come testimonianza di vita… Pensi al Tocqueville dei Souvenirs, libro straordinario, scritto in un francese perfetto, esemplare. Nelle lettere ci offre un quadro di come viveva la sua famiglia, i rapporti, le strutture del pensiero. E i consigli che dà al nipote Hubert, che amava molto. Insomma, stiamo parlando di un uomo che a venticinque anni fa questo viaggio in un paese sconosciuto che si chiama America, un paese, allora, da 16 milioni di abitanti. Sta lì quasi un anno perché voleva vedere il futuro. Poi, guardando il futuro, si chiede: cos’è stato il passato? E quando torna in Francia si chiude in una casa, si fa portare le carte d’archivio, se le studia, e scrive L’ancien Régime. Quindi lui pensa al futuro del mondo e al passato del mondo.

E’ un personaggio interessante, un personaggio che mette insieme”. Un sorriso gli dardeggia nello sguardo. “Fu anche un epico lanciatore di piatti! Sulla parete opposta a quella dove mangiava, alle spalle della moglie Mary Mottley, c’erano dei gran segni sul legno! E poi è stato un fenomeno di precocità: a venticinque anni va in America e a ventisei gli danno una cattedra alla Sorbona. Ha scritto otto volumi di memorie, sto finendo il secondo, ma sto leggendo lentamente perché gli altri li ho a Parigi e non vorrei restare a secco: una galleria di ritratti straordinaria”. Il rapporto tra il presente e il passato, sempre, per una vita. “L’incipit del primo dei Quattro quartetti di Eliot: ecco lo spirito del mio lavoro, ecco il senso intorno a cui è ruotata tutta la mia vita”. Poi il pensiero corre a un intervento televisivo di qualche giorno prima. “A volte, mentre sono lì che parlo, mi viene in mente madame de Villeparisis… Di lei Proust dice: ‘Era passata accanto alle cose grandi, senza accorgersene’. Un po’ la politica italiana, non le pare? Con tutta questa panna montata dell’ultima questione del giorno… Che per carità, anch’essa è una questione seria, ma insomma”. La cronachetta quantitativa, diceva qualcuno.

Cosa legge per rilassarsi? “Quello che leggo”. E puntualizza: “Sia chiaro, non ho nessun pregiudizio nei confronti di quelli che si danno anche a letture di mero svago… Ma circa il loro uso del tempo sì. Abbiamo un numero di giorni limitato, perché buttarlo? Io ai miei studenti, a fine corso, consigliavo tre libri: Il mondo di ieri di Stephan Zweig, La montagna magica di Thomas Mann, Il silenzio del mare di Vercors”. Tre capolavori. Nessun testo più recente? Cassese ci pensa, racconta della sua attività di recensionista – cita, lodandolo, un saggio recente sulle Law school americane – poi scuote la testa: “Si scrivono troppi romanzi. Molti di quelli che leggo per il premio, poi, sono scritti pensando all’utilizzazione televisiva. Il che rattrista molto: scrivono tutti un parlato”. L’ultimo premio Strega che ha apprezzato? “La solitudine dei numeri primi. Io poi credo nel trespassing: uscire dal proprio terreno per calcarne un altro”. Lo dice senza tentennamenti. Anche Petrarca – apprendiamo – era un giurista.

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