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L'analisi

Appunti per un'amministrazione della nazione più virtuosa

Giulio Napolitano

Sabino Cassese presenta il suo ultimo libro in cui racconta e analizza la crisi burocratica che affligge il paese da decenni

Pubblica amministrazione: che fare? Nel suo ultimo libro, “Amministrare la nazione”, Sabino Cassese presenta una diagnosi lucida e impietosa della crisi burocratica che da molti decenni ormai blocca il paese. Le cause vengano da lontano e le responsabilità sono diffuse, a cominciare da quelle degli uomini di governo che, da tempo, incapaci di guidare la burocrazia, scaricano su di essa ogni colpa per gli scarsi risultati di molte politiche pubbliche. Disfunzioni, maladministration e stalli continuano così a essere all’ordine del giorno, come i ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza stanno confermando. Né la continua creazione di norme derogatorie e la proliferazione di organizzazioni satelliti (che fanno dello stato un conglomerato sempre più eterogeneo e inafferrabile: Cassese lo definisce un “arcipelago”) costituiscono rimedi adeguati. Infatti, anche quando riescono a risolvere questioni ed emergenze specifiche, da un lato, lasciano aperti i problemi di fondo sollevati dalle regole ordinarie non riformate o ben mantenute; dall’altro, finiscono per aggravare il caos normativo e rendere sempre più inestricabile la trama legislativa che avvolge l’amministrazione. Qui emerge un’altra stortura del nostro sistema istituzionale: il moltiplicarsi delle leggi provvedimento con cui il Parlamento (in realtà il governo, per il tramite di quest’ultimo) si sostituisce all’amministrazione per adottare singoli decisioni sotto lo schermo protettivo della norma primaria. Si perfeziona così un patto scellerato con cui il decisore politico ottiene ciò che vuole e la dirigenza amministrativa non si assume alcuna responsabilità. 

In questa situazione, le riforme restano e anzi diventano ogni giorno più necessarie. Allo stesso tempo, però sembrano mancare le condizioni indispensabili per disegnarle correttamente e attuarle efficacemente, come dimostrano i tanti fallimenti, antichi e recenti. Anche qui le cause sono molteplici: breve durata dei governi; improvvisazione delle soluzioni normative; scarsa conoscenza della legistica da parte dei redattori delle norme, illeggibilità del quadro legislativo su cui intervenire. Per invertire la rotta servirebbero allora soluzioni strutturali e una netta soluzione di continuità rispetto al passato. Di seguito, ecco alcuni possibili fattori di “innesco” di dinamiche auspicabilmente più virtuose.

Il primo potrebbe essere un intervento della Corte costituzionale in una delle prossime pronunce sulle leggi provvedimento. Già in passato, quando il livello di abuso di mezzi pur formalmente legittimi è diventato insostenibile, la Corte è intervenuta con coraggio, anche a costo di rompere prassi e precedenti consolidati. Si pensi alla famosa sentenza che, nel 1996, pose fine all’antica consuetudine della reiterazione dei decreti legge non convertiti. Qualcosa del genere servirebbe oggi per le leggi provvedimento da dichiarare, ora e per sempre, contrarie alla Costituzione per violazione dei princìpi di imparzialità e buon andamento, pur mancando nella Carta del 1948 una riserva espressa di funzione amministrativa. Nel medesimo spirito, la Corte potrebbe dichiarare illegittime le norme che istituiscono regole e procedure in deroga che non abbiano un oggetto circoscritto e che restino in vigore per più di un tempo limitato (ad esempio, un anno). 

In secondo luogo, il presidente del Consiglio dovrebbe affidare a ogni ministro il compito primario di raccogliere, con l’ausilio del Consiglio di stato, le norme di rispettiva competenza in appositi codici di settore. Oggi abbiamo una situazione a macchie di leopardo. In alcuni ambiti, il lavoro di codificazione avviato all’inizio degli anni Duemila ha dato buoni frutti. In altri, il quadro è estremamente frammentato e ancora basato su norme antiquate e piene di buchi (basti pensare al Testo unico di Pubblica sicurezza del 1931). Una volta completata l’operazione, il presidente del Consiglio dovrebbe rifiutarsi di portare in Consiglio dei ministri l’approvazione di nuove disposizioni che non siano coordinate ed eventualmente emendative di tali codici oppure eccezionalmente derogatorie (ma per un solo anno).

Il terzo luogo, servirebbe un piano governativo di complessiva riorganizzazione ministeriale, a cominciare dalla testa. Ogni ministro dovrebbe dedicarsi a tempo pieno, e “nell’interesse esclusivo della nazione”, alla guida e alla cura del dicastero di competenza, rinunciando a ogni attività di partito (e possibilmente anche a dichiarazioni amene). A tal fine, potrebbe essere utile anche l’incompatibilità tra la posizione di ministro e quella di parlamentare, con le necessarie garanzie (medesimo trattamento economico-giuridico, “riacquisto” del seggio in caso di cessazione anticipata dal mandato). Per gli uffici di diretta collaborazione bisognerebbe privilegiare il ricorso a risorse interne come avviene per i grandi ministeri d’ordine o quanto meno differenziare posizioni e provenienze (semplificando al massimo, consiglieri di stato e avvocati dello stato appaiono meglio attrezzati per operare come capi di gabinetto; consiglieri parlamentari e professori universitari come capi degli uffici legislativi). A capo della struttura burocratica, andrebbe sempre prevista la figura del segretario o, meglio, direttore generale, cui si dovrebbero assegnare funzioni propriamente manageriali come se fosse un amministratore delegato. 

Infine, per dare più spazio alle voci sia di dentro sia di fuori, si potrebbe costituire, sulla falsariga dell’esempio statunitense dell’Acus (Administrative Conference of the United States) una Conferenza amministrativa della Repubblica italiana, con il compito di fornire raccomandazioni per il miglioramento della qualità della regolamentazione e dell’efficienza nell’attuazione delle politiche pubbliche, che spetterebbe poi al presidente del Consiglio adottare e rendere vincolanti. Ad esempio, l’ultima Conferenza statunitense, svoltasi lo scorso giugno, ha adottato quattro raccomandazioni sulla pubblicazione “proattiva” dei documenti pubblici, sulla partecipazione virtuale alle decisioni collettive, sull’uso di algoritmi per la valutazione di impatto delle regolamentazioni e sulle procedure online per la soluzione dei conflitti con le agenzie. Anche in Italia, della Conferenza dovrebbero far parte i migliori dirigenti dell’amministrazione centrale e locale, manager privati e gli esperti dei vari saperi utili per il quotidiano funzionamento della burocrazia. Proposte di riforma e best practices potrebbero così nascere e circolare anche dal basso, sulla base di studi approfonditi e di prove sul campo.

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