Nel negozio della “dottoressa delle bambole”, a Torino (foto LaPresse) 

Alle orgini di un mito

Tra narcisismi, simboli e lati oscuri: anche le bambole crescono

Donatella Borghesi

Barbie e le altre. Molto più che un giocattolo. Un segno e un simbolo controverso. Storia di “piccolo idolo sbiadito” che ha subìto molte trasformazioni
 

Un gruppo di bambine sta accudendo le proprie bambole con le appropriate attenzioni materne, quando una di loro improvvisamente si alza in piedi, e roteando la sua, la scaglia con rabbia in un cielo plumbeo. Le altre la seguono con un urlo catartico. Non sei più la mia bambola, non sei più la mia bambina. E io sono libera. Comincia così il film di Greta Gerwig, Barbie, che non solo ha sbancato ai botteghini, ma ci ha portato come per incantamento a guardare con altri occhi questo doppio di sé che ha accompagnato nei millenni ogni bambina. Lei, la bambola. Molto più che un giocattolo. Un segno, un simbolo controverso. Un perturbante. 

 

Una bambina senza bambola è come una donna senza figli”, sosteneva Victor Hugo, che nei Miserabili scrive una delle sue pagine più enfatiche, quella del regalo di una bambola alla piccola Cosetta. “La bambola è uno dei più imperiosi bisogni e nello stesso tempo uno dei più incantevoli istinti dell’infanzia femminile. Aver cura, vestire, ornare, abbigliare, spogliare, tornare ad abbigliare, insegnare, un po’ brontolare, cullare, carezzare, addormentare, figurarsi che qualche cosa sia qualcuno; tutto l’avvenire della donna è là. Sempre sognando e sempre mormorando, facendo sempre dei piccoli corredi e delle piccole fasce, sempre cucendo sottanine, corpettini e giubbettini, la bambina diventa giovinetta, la giovinetta diventa giovane, la giovane diventa donna. Il primo figlio continua l’ultima bambola”. L’Ottocento è il secolo che più ha esaltato la maternità e la famiglia, con la donna ovviamente regina reclusa. Ma nasconde anche un piccolo segreto: il culto delle bambole meccaniche, sulla scia di Offenbach, l’automa Olympia è la protagonista di un’opera lirica molto di moda. La donna che diventa bambola, movimenti rallentati, occhi fissi, immobile se non la stimoli tu, il desiderio segreto di ogni uomo.    

Il dono dei giochi è un rito di iniziazione e insieme di normalizzazione. Tutte le culture hanno nel gioco imitativo del mondo adulto la modalità per spiegare ai figli, senza parole, quello che succederà dopo, “da grandi”. Il cavallino ai maschi, la bambola alle femmine. La bambina deve intravedere il suo destino biologico, anche se lei ancora non lo sa. Lo scriveva Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, nel 1949, caposaldo della storia delle donne: “Mentre il bambino cerca se stesso nel suo pene in quanto soggetto autonomo, la bambina si prende cura della sua bambola e la veste come lei stessa sogna di essere accudita e vestita”. Si sente l’influenza di Freud, e appare chiara la differenza: il maschio è individuo, pronto alla competizione uno a uno, la femmina è doppia, è insieme madre e figlia. 

 

Nelle prime pagine di L’amica geniale di Elena Ferrante, le due protagoniste, Lena e Lila, giocano davanti all’inferriata di uno scantinato nel cortile della casa popolare. Si sono scambiate le bambole in segno della promessa della loro amicizia, ma lo sentono già che sarà conflittuale e che durerà per sempre. Senza una parola, solo un gesto, Lila butta la bambola di Lena dentro il buio dello scantinato. Lena rimane muta, e Lila le dice: Che c’è, nun te n’importa? Quello che fai tu lo faccio anch’io, risponde Lena, e butta giù anche lei la bambola di Lila. Ora vammela a piglià… E tu va a piglià la mia… Va bene, tanto nun tengo paura. Va’ tu innanzi. In questa scena c’è il doppio: due bambine, due bambole, e il conflitto tra le due amiche. Il tema delle bambole e delle bambine perdute ritorna in tutta l’opera narrativa di Ferrante, simbolo di quel legame circolare che lega le donne. La relazione tra donne, segnata dal doppio. E dal conflitto, perché la presa di coscienza del mondo per le donne è fondamentalmente relazionale, e qualsiasi intoppo nella relazione, anche il più piccolo, diventa una frattura. “Giocare alle bambole” non è quella favola che la cultura patriarcale ci ha fatto intendere, veicolata da mamme nonne zie e tate: un ordinato e imitativo gioco “alle signore”, con i servizi per il tè in miniatura e la “casa per le bambole”, rappresentazione precoce e mimetica della ristretta vita femminile. Può invece dividere amicizie, essere scontro e riappacificazione, lacrime e sangue. La bambola la puoi accudire amorosamente, e la puoi anche rimproverare, picchiare, parlarle in malo modo, strapparle i capelli, ripetere con lei quello che hai temuto o fantasticato.

 

Scrive la teorica femminista Lea Melandri: “Le bambine hanno sempre avuto un rapporto ambiguo con quel corpo inanimato in tutto simile al loro, fatto per specchiarsi più che per apprendere la difficile arte della relazione con l’altro. Lo coccolano e, al medesimo tempo, lo invidiano. La sua bellezza e seduzione inducono ansie e voglie devastatrici: diventa necessario impadronirsene, sottometterne il mistero imponendogli norme e leggi”. Da questo punto di vista sì, è anche la prova generale di quello che sarà il rapporto tra madre e figlia. Ma questo è un altro film.

Proviamo a tornare alle origini. Dono o buon auspicio, le prime bambole erano piccole statuine in terracotta, in legno, in avorio, con le braccia e le gambe snodabili, come ci confermano i ritrovamenti archeologici. Si racconta che Saffo abbia regalato le sue alla dea Afrodite. E chissà se le piccole Camille, le bambine etrusche destinate a diventare sacerdotesse, abbandonavano le loro con un po’ di nostalgia, la stessa che forse provavano anche le ragazze patrizie romane, che dopo una brevissima infanzia e il loro primo ciclo mestruale entravano di default nel mercato dei matrimoni combinati a favore dei potenti padri. Le altre, le plebee, nel corso dei secoli si sarebbero esercitate presto ad essere madri curando i loro fratelli più piccoli. Poi, da segno votivo diventano man mano giocattolo e specchio, modello estetico, ma sempre con tratti infantili. Corpo di stoffa e testa di bisquit, e vestiti che riflettevano le mode dell’epoca. Resta ancora una traccia di queste bambole in crinolina, accomodate sul letto di certe case di eterne bambine. 

 

Allo stereotipo del legame indissolubile tra bambola e bambina dà un primo colpo l’americana Louise May Alcott in Piccole donne, uscito nel 1868 negli anni della guerra di Secessione, basico libro della letteratura femminile. Jo, la più ribelle delle quattro sorelle March, sembra non averne bisogno, scrive e si inventa il gioco del teatro, intraprende la strada dell’emancipazione: a lei va la simpatia delle sue lettrici di ogni epoca, tutte vorrebbero essere Jo… Mentre più o meno negli stessi anni nell’Inghilterra vittoriana Charlotte Brontë faceva dire a Jane Eyre: “Mi portavo sempre nel letto la bambola, mi studiavo di provare piacere amando e vezzeggiando un piccolo idolo sbiadito, malridotto come uno spaventapasseri”. Nel passaggio di secolo tra Ottocento e Novecento il “piccolo idolo sbiadito” ha una trasformazione accelerata. La grande Maria Montessori comincia nelle scuole a dare voce ai bambini e a parlare con loro alla stessa altezza, e a offrire strumenti diversi dai giochi divisi per genere. Ed è del 1907 il primo libro femminista italiano, Una donna, di Sibilla Aleramo. E’ fatale per lei l’incontro a teatro con la Casa di bambola di Ibsen, testo che ha nutrito intere generazioni di donne. “Quella povera bambola di sangue e di nervi che si rendeva ragione della propria inconsistenza, e si proponeva di diventare una creatura umana, partendosene dal marito e dai figli, confermava le mie scelte”, scrive Aleramo. “Senza quella voce non sarei diventata quella che sono”. E’ cominciato il lungo viaggio di liberazione delle donne, che non vogliono più essere “povere bambole di sangue e nervi”. 

 

Arriva il ’68, e Patty Pravo canta “Mi fai girar come fossi una bambola…”. La bambolina di carne ha cominciato a dire “no, no, no, no”, come cantava Polnareff. Intanto, il “Che bambola!” con il fischio di Fred Buscaglione dava l’idea del revanscismo maschile e dei suoi nuovi stereotipi. Pochi anni dopo, nel 1973, esce il libro che da cinquant’anni accompagna con autorevolezza gentile figli e genitori, ragazzini e insegnanti: Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, un milione di copie vendute, tradotto in tutto il mondo, interpretato, glossato e imitato. Dice semplicemente che esiste un condizionamento sociale sulla formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita. E invita a non regalare loro troppe bambole, e magari girarle ai maschi. E viceversa, naturalmente. Poi la storia è andata avanti, con i giovani padri che condividono la cura, e una parità tra i sessi che anche se lentissimamente si concretizza. Nonostante questo l’associazione tra donna e bambola non è evaporata, si è trasformata nella donna-bambola. Scrive ancora Lea Melandri: “La bambola che l’uomo e la donna incontrano all’inizio della loro vita sembra dunque assommare in sé aspetti diversi: è il corpo che genera, il corpo della madre, se visto dall’interno, ma è anche, guardato da fuori, l’oggetto d’amore che si consegna, muto e seducente, al desiderio sessuale. Inoltre, dato che la bambola viene tradizionalmente associata al figlio futuro, si può pensarla anche come immagine di quel femminile narcisisticamente appagato di se stesso, che Freud accosta al bambino e ad alcuni animali da preda”. E’ in questi anni di profonda trasformazione culturale che riappare il lato oscuro della bambola. Sono gli anni dello studio antropologico delle culture “altre”, dei pupazzi da trafiggere con gli spilloni dei riti vudu, ma anche del cinema horror, con ben due cicli di Alexandra, la bambola assassina. Senza contare la presenza ossessiva delle bambole di carne uccise dagli innumerevoli serial killer dei movie di serie B.  E’ il perturbante che si fa vivo. 

 

La prima bambola-femmina, la Barbie, appare negli anni della cultura Pop. In un doppio salto mortale il “piccolo idolo sbiadito” si è trasformato in un’icona universale. Quella rigida statuina di plastica alta 29 centimetri, è una donna adulta e sexy, seni prorompenti e vitino di vespa, gambe lunghissime, i piedi già conformati al tacco 12, e ovviamente bionda (almeno la prima), uno sterminato guardaroba (è lei la prima fashion victim), una casa completa di accessori e un’auto rosa. Una creatura così non la si può imboccare cullare e mettere a letto, ma solo ammirarla come se fosse la tua immagine-specchio, il tuo sogno, il tuo possibile destino, se gli dèi avranno la bontà di assisterti. E anche strapazzarla, tagliarle i capelli e stracciarle le vesti, se non riesci a riconoscerti in lei nemmeno per un infinitesimo grammo. Barbie è una femmina, è proprio questo il punto: ha sconvolto la geografia corporea della bambola-bambina rimasta eterna nei secoli, e innestato un processo identificativo proiettato nel futuro di donna adulta, tagliando il cordone ombelicale con la madre.  

 

Barbie è stata uno dei segni più clamorosi di quella mutazione culturale che è andata di pari passo con l’imporsi della società consumistica e tutto lo sterminato mercato della bellezza e dello status sociale. La sua nascita ha però diviso profondamente le donne. Molte madri negli anni Sessanta e Settanta le rifiutavano alle loro figlie, non per moralismo, ma perché le trovavano regressive, un ritorno a modelli sessisti. Ma poi ha vinto il mercato. Da decenni tutte le bambine hanno nelle loro camerette “le” Barbie, perché esistono al plurale, non ne basta una: rappresentano con il mutare delle professioni tutta la società globale – perché sono ragazze indipendenti e non hanno necessariamente un uomo (d’altra parte Ken è un accessorio). Magari hanno iniziato come estetista e hanno finito per diventare presidente degli Stati Uniti… Il sogno continua, anche con le altre bambole adulte uscite sul mercato: le Winx, più simili al mondo delle fate e degli elfi, le Witch, che chiaramente fanno riferimento alle streghe, le Monster High, vestite di nero e fieramente avverse al culto della bellezza. Dietro di loro, apparati di marketing, media social e fan club, una vera industria. Intanto si accorcia sempre di più l’età delle bambine che preferiscono le bambole adulte, come si è accorciata l’infanzia (e anticipata un’adolescenza che diventa lunghissima).

 

Magari conservano ancora il bambolotto dimensione neonato col ciuccio, ma sono le altre a rappresentarle. E l’orientamento delle ragazze segue ormai due filoni, che si scontrano o si alternano: quello più legato alla cura di sé, alla bellezza, e quello più eroico, combattente. E’ quest’ultimo a trovare più riscontro anche nella produzione cinematografica. Da Hunger Games alle serie con eroine femmine e tostissime, al fantasy di autrici donne, il modello è comunque il protagonismo femminile individuale. E se ci pensiamo, e proviamo a tornare al mondo classico, le dee avevano spesso insieme le due caratteristiche. Sarà questo un segno per il futuro, ora che Greta Gerwig con il suo film ha dato il colpo di grazia alla bambola? Le Barbie depresse sperano di diventare “persone”, e le umane sono liete di accoglierle nel loro mondo. Potremmo allora dedicare di nuovo le nostre bambole alle dee? La bambola è morta, lunga vita alla bambola. 

 

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