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l'editoriale del direttore

Barbie smaschera i tabù (non solo di genere) di chi odia la libertà

Claudio Cerasa

Un tempo la bandiera che segnava l’adesione ai valori occidentali era McDonald’s. Ora è un film. Nei paesi illiberali, islamici o in Russia gli stili di vita liberi di Barbie & friends sono osteggiati o vietati del tutto 

Un tempo c’era McDonald’s, oggi c’è Barbie. Un tempo, a segnare i confini dell’occidente, delle democrazie liberali, della società aperta, c’era la “M” di Ronald McDonald’s. E l’equazione era quasi lineare. Laddove arrivava un Big Mac, l’America non era odiata. Laddove il Big Mac non era tollerato, invece, la libertà faticava ad affermarsi. Esempio classico: prima della rivoluzione islamista del 1979, i Big Mac potevano arrivare in Iran. Dopo la rivoluzione, e l’arrivo degli ayatollah, i McDonald’s vennero vietati. Un tempo c’era McDonald’s, oggi c’è “Barbie”. E il film diretto da Greta Gerwig, campione di incassi al botteghino, nelle ultime settimane è divenuto qualcosa di più di una semplice storia di successo cinematografico. E’ diventato un termometro, come McDonald’s, per misurare, in giro per il mondo, l’amore per la libertà.

Il sito americano Axios ha segnalato ieri alcune storie interessanti. In Algeria, il governo ha ritirato qualche giorno fa “Barbie” dai cinema, quasi un mese dopo la sua uscita nel paese. La scelta è arrivata subito dopo una mossa analoga fatta dalle autorità del Kuwait e del Libano. La motivazione è sempre la stessa: minaccia ai valori morali del paese. Il film – ha detto il ministro della Cultura libanese Mohammad Mortada – contraddice “valori di fede e moralità” e promuove “l’omosessualità e la trasformazione sessuale”. Lo stesso ha fatto il Pakistan (mentre in Arabia saudita, caso interessante, il film è stato proiettato nelle sale: l’Arabia saudita considera il mondo dell’intrattenimento come un grande strumento di softpower, come per il calcio, e i suoi enormi investimenti in questo settore hanno spinto le autorità del paese a chiudere un occhio sui messaggi del film). Lo stesso hanno fatto gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, il Qatar, l’Iran, il Bahrein, l’Oman (alcuni di questi paesi hanno chiesto formalmente a Netflix di rimuovere i contenuti che “violano i valori e i princìpi islamici e sociali”). Lo stesso ha fatto, in un certo senso, la Russia, dove il film “Barbie” non è nelle sale perché la Warner Bros., come le altre case di produzione occidentali, ha abbandonato il paese dopo l’invasione dell’Ucraina, ma dove anni fa  Putin aveva vietato la vendita della bambola in quanto, secondo le autorità competenti, “promuove un atteggiamento consumistico tra i bambini”. Il film è stato vietato anche in Vietnam a causa della sua rappresentazione in una cartina della “Nine Dash Line”, la linea dei nove tratti, una serie di fasce a U che a partire dalla costa cinese comprende tutti i territori che la Cina considera come propri e di cui invece il Vietnam rivendica una parte. La trasformazione di Barbie in un termometro utile a misurare la libertà in giro per il mondo è un tema che in alcuni casi mette in imbarazzo gli stessi entusiasti sostenitori del film di Greta Gerwig, costretti ad aprire gli occhi anche su tematiche difficili da affrontare per il pensiero progressista: la tendenza naturale dei paesi islamici a comprimere, per ragioni ideologiche e religiose, le libertà delle donne. Il fenomeno Barbie, nel mondo islamico, è la punta di un iceberg, come ha giustamente segnalato in un lungo reportage qualche giorno fa il Washington Post, e i casi di aggressioni alla libertà emersi attraverso l’industria cinematografica sono molti. 

Ad Amman, in Giordania, la proiezione di un film con un protagonista maschile gay è stato recentemente annullata su ordine delle autorità. In Libano, lo spot pubblicitario di una birra che appariva come inclusivo verso il gender è stato considerato “non conforme”. In Iraq, le autorità di regolamentazione hanno vietato ai media di usare la parola “omosessualità”, ordinando invece di riferirsi ad essa come “devianza sessuale”. La Malesia, paese a maggioranza musulmana, ha vietato tutti i prodotti Swatch che contengono elementi Lgbtq+, inclusi orologi, involucri e scatole, il cui possesso è punibile fino a tre anni di carcere. Due mesi fa, a giugno, “Spider-Man: Across the Spider-Verse”, è stato bruscamente ritirato dalle liste cinematografiche di tutto il medioriente a causa di una scena in cui figurava un poster con una persona transgender.

Si dirà: ma per quale motivo Barbie viene considerata, dalla cultura islamica, così pericolosa? Ci sono alcuni aspetti espliciti. Barbie si veste in modo molto disinibito e questo è chiaro. Barbie consuma alcol e questo è inaccettabile. Barbie si scatena in balli estremi e questo è un problema etico. E poi, ovvio, c’è la presenza di Kate McKinnon che interpreta “Barbie stramba”, cioè una barbie lesbica. C’è la presenza di una barbie transgender, come Hari Nef. C’è la presenza di una barbie scrittrice, che usa parole di apprezzamento per la comunità Lgtbq+, e c’è infine un Ken, Scott Evans, apertamente gay. Ma accanto a questo vi è dell’altro. Vi è la libertà di cui Barbie è un veicolo. Vi è il suo messaggio di fondo. Barbie lotta contro il patriarcato, Barbie ridimensiona la figura dell’uomo, Barbie si emancipa dall’immagine della donna di plastica, Barbie lotta per i diritti della donna, Barbie rappresenta il capitalismo che si evolve, Barbie dunque diventa automaticamente il simbolo delle battaglie delle donne per la libertà. E dove le libertà sono compresse (come nel mondo islamico), dove le libertà sono limitate (come in Russia) un film come “Barbie” non può che diventare lo specchio dei propri tabù. E quando sulla propria strada si incontrano paesi che continuano ad aver paura dell’America, che continuano ad aver paura del capitalismo, che continuano ad aver paura dell’emancipazione della donna bisognerebbe chiedersi, guardandosi allo specchio, se i paladini dei diritti stanno facendo tutto il possibile per smascherare i veri nemici della libertà. Un tempo c’era McDonald’s, oggi c’è Barbie. La difesa dell’occidente, volendo, passa anche da qui. Claudio Cerasa

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.