La copertina del libro "L'amica geniale" di Elena Ferrante

Perché l'ammirazione mondiale per Elena Ferrante ha bisogno di un asterisco

Mariarosa Mancuso

E se fosse meglio la traduzione in inglese?

Da anni meditiamo un esercizio sul tema “Perché non amiamo Elena Ferrante, e perché guardiamo con sospetto i lettori che hanno divorato la saga ‘L’amica geniale’”. Vorremmo anche aggiungere al titolo un asterisco, e in corrispondenza dell’asterisco stampare la precisazione “Trascurando i romanzi strepitosi che prendono la polvere in libreria” (come fa Woody Allen in “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso*”, dove * sta per “…e non avete mai osato chiedere”).

  

Da anni meditiamo di scrivere su Elena Ferrante, ogni volta rinunciamo. Per cause di forza maggiore: irritazione e fastidio. La stessa irritazione e lo stesso fastidio che Mark Twain confessa nei confronti di Jane Austen, in una lettera del 1898. “Ho pensato tante volte di scrivere su di lei. Ma i suoi romanzi mi provocano una tale irritazione che difficilmente potrei nasconderla al lettore, e appena comincio a scrivere quel che penso mi impongo di smettere”. Per amor di chiarezza, Mark Twain lascia la penna e afferra la pala: “Ogni volta che prendo in mano ‘Orgoglio e pregiudizio’ mi viene voglia di disseppellire la scrittrice e di picchiarla sul cranio con la sua stessa tibia”.

  

Lunga vita a Elena Ferrante, naturalmente (serve anche da napoletanissimo scongiuro). E a chi sta dietro lo pseudonimo, pur mettendo a verbale la nostra stretta osservanza nannimorettiana: chi si nega (e non perde occasione per ricordare che si sta negando) intende soltanto attirare l’attenzione su di sé. L’unica sorpresa vera sarebbe accertare l’esistenza di un maschio, dietro la tanto lodata “sensibilità femminile” e l’altrettanto lodata conoscenza dell’invidia tra donne.

  

Parentesi. Amiamo e leggiamo con lo stesso gusto Mark Twain e Jane Austen, per risolvere la questione facciamo come abbiamo imparato a fare con le persone che a noi piacciono, ma tra loro si stanno antipatiche: le frequentiamo separatamente. Resta la sostanza. Ogni volta che abbiamo provato di leggere un romanzo di Elena Ferrante, a cominciare da “I giorni dell’abbandono” – quando nessuno, ma proprio nessuno, se la filava, è del 2002 e “L’amica geniale” arriva nel 2011 – siamo stati respinti. Né la prosa, né la trama, né la figlia dell’usciere, né la figlia del calzolaio, neanche la miseria napoletana davano voglia di andare avanti.

  

“Ogni volta” va dettagliato. Quando scoprimmo che “I giorni dell’abbandono” era una viscerale variazione sul vittimismo femminile (la trama che più detestiamo, nei libri e al cinema). Quando “L’amica geniale” andò in libreria e cominciò il passaparola (siccome un romanzo non si giudica dalla copertina kitsch, tentammo la lettura). Quando il passaparola diventò un’epidemia, e la saga si piazzò stabilmente in classifica (per la gioia dell’editore E/O, auguriamo cento di questi best-seller). Quando arrivò il successo americano, dopo un articolo di James Wood sul New Yorker: un piccolo dramma, per noi che con James Wood eravamo sempre andati d’accordo (furono più facili da reggere i complimenti via Facebook di James Franco). Quando uscì il documentario “Ferrante Fever”, e ora che esce la serie televisiva diretta da Saverio Costanzo, in anteprima alla Mostra di Venezia. I fan intanto possono guardare su Variety le foto di Lena e Lenù da piccole, e far scattare il tweet “me le immaginavo diverse”. Per “era meglio il libro” bisogna aspettare il 30 ottobre, la serie andrà su Rai 1.

  

Niente di niente, la scintilla non scoccò. “La frantumaglia” – lettere, interviste, segreti d’autore con tre edizioni “arricchite” in pochi anni – ha solo aumentato l’irritazione. Ultima speranza, la spiegazione con il disegnino. Provvede Tiziana de Rogatis, in “Elena Ferrante. Parole chiave” (all’indotto provvede sempre l’editore E/O). Abbiamo abbandonato prestissimo, a “risemantizza i tratti della differenza femminile”. Prima di affrontare il capitolo “Smentire l’orizzonte d’attesa delle identità”. Spiace che Elizabeth Strout e Jonathan Franzen siano fan, loro dovrebbero saper distinguere un bel romanzo da uno brutto. Forse in traduzione Elena Ferrante migliora.

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