“Emblematico”, “intenso”. L'arte dell'intervista letteraria, tra una catastrofe e l'altra

Mariarosa Mancuso

Walcott e Naipaul: i due simpaticoni dei Caraibi come a un esame universitario

Meglio non farsi intervistare, finisce che ti mettono in bocca la parola “emblematico”. Intervista si fa per dire: erano quattro domande su un festival del cinema, con diritto di rilettura e di correzione. Non fu esercitato per eleganza. Visti dall’altro fronte, gli intervistati che vogliono rileggere – se non sono politici in grado di scatenare una guerra con un aggettivo, o Stefano Benni che lo esige come condizione dopo lunga trattativa – un po’ di fastidio per la scarsa fiducia lo procurano. Sconsigliò l’esercizio del diritto di modifica anche una precedente disavventura: l’intervista da licenziare era scritta così male che ogni ritocco sarebbe stato vano.

 

“Emblematico” rimane lì, a futura vergogna (il giornaletto era defilato e scarso di tiratura, ma da qualche parte esiste). Nel tentativo di cancellare la macchia – non importa se la vediamo solo noi, come il sangue sulle mani di Lady Macbeth – ci siamo tenuti sempre alla larga da “riduttivo”, “dimenticatoio”, “fuori dal coro”, “combinato disposto”, “opinionista”, e pure “silenzio assordante”. Non abbiamo mai bollato un romanzo come “opera minore di grande scrittore”. Non abbiamo mai detto o scritto (fidatevi, neanche pensato) “in quanto donna”: solo qualche tentazione per parodia o sfottò, ma non volevamo correre il rischio che venisse scambiato per pensiero intelligente.

 

Non abbiamo mai scritto, né pronunciato in radio, l’aggettivo “intenso”: grimaldello che per i dilettanti risolve ogni intervista letteraria. I non addetti neanche immaginano quante volte lo si può ripetere, senza far venire allo scrittore il sospetto che il suo romanzo sia ancora sigillato nel cellofan, pronto per essere rivenduto sulle bancarelle a metà prezzo. Senza leggere neppure il risvolto di copertina, salvagente che può reggere un’intervista intera. Durante un salone del libro, lo scrittore si presentò per la diretta con un giorno di anticipo – colpa di un disguido con l’ufficio stampa. Alla fine ringraziò per le domande puntuali e la lettura attenta (il nome resta segreto per proteggere l’innocente, godetevi la confessione che i romanzi si leggono all’ultimo momento utile).

  

L’intervista funziona come un gioco a due, il romanzo fa da terzo incomodo. Lo è anche nelle recensioni: citazioni dal libro non se ne trovano mai, quando ne scappa qualcuna immancabilmente viene dalle prime dieci pagine (per anni abbiamo tenuto un quadernino con gli esempi per dimostrare la teoria, sta da qualche parte assieme al quadernino per segnare le traduzioni sballate, ora basta lo screenshot). Gli sforzi convergono verso l’intervista letteraria campione: finta modestia a mascherare narcisismi da manuale, citazione da Pier Paolo Pasolini se il romanziere insegue l’impegno, “emblematico” lasciato cadere come un macigno, una nobile gara a chi per primo dice “metafora”.

 

Frequentando assiduamente il genere, vengono in mente gli scrittori che nell’800 non sdegnavano l’aiutino delle droghe. Descrivevano tutti le stesse visioni, garanzia di serietà e di riconoscimento reciproco. Se fumavi l’oppio e tra i fumi vedevi una fanciulla, eri un artista geniale. Se fumavi l’oppio e tra i fumi vedevi qualsiasi altra cosa, non eri né un genio né un artista. Magari non avevi neanche fumato, solo fatto finta. Valeva lo stesso per la sifilide: se non te l’eri beccata al bordello, non eri maledetto come allora bisognava essere.

 

Gli scrittori tengono a ben comparire, e si concedono volentieri anche quando le domande sono generiche o orecchiate. Eccezione numero uno, la buonanima premio Nobel V. S. Naipaul: peggio che a un esame universitario, controllava la conoscenza della materia e approfittava della minima incomprensione per troncare l’incontro (“ma a te dopo quanto tempo ti ha cacciato?” si informava chi era fuori in attesa del proprio turno). Eccezione numero due, l’altra buonanima premio Nobel Derek Walcott. Domanda, smorfia annoiata, ripetizione della domanda (via interprete, caso mai servisse una pronuncia oxfordiana), altra smorfia annoiata. I due simpaticoni dei Caraibi.