Riscoprire l'ironia di Melville ascoltando l'audiolibro di Moby Dick

Mariarosa Mancuso

Per tornare alla grandezza dei gomitoli dello scrittore statunitense serviva il racconto di un attore (da noi no, non sanno farli)

Il primo audiolibro italiano mai ascoltato dopo pochi minuti di parole faceva partire la musichetta. Come se non fossero bastati, per innervosire, la voce e i vezzi da antico teatro: attori con la voce impostata che davanti a un inciso sentono di dover scavare un fossato alla prima virgola, per poi scavarne un altro alla seconda virgola. Guai se arriva una battuta, o una sfumatura ironica: provvedono in anticipo con la risatina, e viene il malumore.

 

La musichetta serve per alleggerire: è opinione universalmente condivisa - anche da chi vorrebbe incentivare la pratica - che la lettura, e perfino l’ascolto di qualcuno che legge per noi, significhi “fatica”. L’unico effetto finora riscontrato (la cavia siamo noi) consiste nel far fuggire chi pensa che l’accoppiata “lettura di poesia & musicista per gli intervalli” sia seconda - per noia e vecchiezza - soltanto all’accoppiata “programma culturale & musica classica”. Pazienza. Prima o poi impareremo a guardare i film sottotitolati, e ad ascoltare un audiobook - magari via app, con un abbonamento mensile - senza intervalli per riposare. Senza pensare che un romanzo letto di seguito sia un esercizio estremo nell’arte dell’apnea. Sui libri “letti dall’autore medesimo” serve un feticismo per gli scrittoi italiani che a noi manca (gli stranieri invece lo fanno benissimo, con bella dizione, chiari nella pronuncia e nella sintassi).

 

Ascoltando alla radio una lettura (musica in modica quantità) abbiamo perso un’altra volta la testa per “Moby Dick”. Non che avessimo dimenticato la bravura di Herman Melville, tanto strepitosa che non abbiamo mai neanche pensato di saltare i pezzi con le balene: come si cacciano, cosa se ne ricava, quanto fanno guadagnare. Ma le giornate trascinano altrove, difficile stare con il pensiero fisso al capitano Achab.

 

Il fuoco che covava sotto la cenere è diventato incendio quando abbiamo sentito la frase di Ismaele (o chi per lui, sappiamo subito che è un nome fasullo): “Sobbalzai a un rumore tanto strano, prolungato, musicalmente selvaggio e ultraterreno che il gomitolo del libero arbitrio mi sfuggì di mano”. “Il gomitolo del libero arbitrio”: uno scrittore meno talentuoso avrebbe aggiunto almeno un “come”, perdendosi nei dettagli di quel che succede ai gomitoli quando scappano di mano e si infilano sotto i mobili.

 

Poche pagine dopo, arriva la spiegazione. L’intreccio tecnico che rende il romanzo irresistibile, descritto benissimo. Non importa se Melville (o chi per lui, chiamiamolo Ismaele) sta parlando degli ordini di Stubbs, secondo ufficiale a bordo del Pequod: “Diceva le cose più terribili, in un tono che era un curioso misto di ironia e di rabbia. E la rabbia sembrava calcolata con cura solo per aggiungere un po’ di pepe all’ironia, tanto che nessun rematore poteva ascoltare quelle bizzarre invocazioni senza buttarsi a vogare come un pazzo, ma sempre e unicamente per il gusto di farlo”.

 

L’ironia. Ecco perché le centinaia di pagine scivolano via, balene comprese (sì, ci sono anche la furia, la vendetta, il male, ma scegliere quel che piace non è un delitto, sennò basterebbero i sunti e i commenti dei manuali, fanno passare la voglia di leggere qualsiasi cosa). L’ironia che accompagna, per esempio, l’incontro tra il sedicente Ismaele e il ramponiere Queequeg a Nantucket. Non si sono ancora visti, ma già sappiamo che dormiranno insieme, alla Locanda dello sfiatatoio non c’è altro letto libero. Queequeg è fuori a vendere teste (imbalsamate, dalla Nuova Zelanda), quando rientra ha i tatuaggi, la pelle scura di chi viene dai mari del sud, una testa che pare “un teschio ammuffito”. Prima di dormire venera i suoi idoli, e dorme con l’accetta appoggiata sul cuscino. Al mattino, Ismaele si sveglia stretto in un abbraccio amorevole e affezionato, “si sarebbe quasi potuto pensare che io fossi sua moglie”. Il braccio tatuato sembra un pezzo della trapunta patchwork. Il selvaggio si fa la barba usando il rampone come rasoio. Con lo stesso rampone a colazione acchiappa le bistecche al sangue sdegnando caffè e pagnotte.