Il funerale a Kyiv di Victoria Amelina, morta nel ristorante di Kramatorsk bombardato dai russi il 27 giugno (LaPresse) 

resistenza culturale

L'ultimo giorno di Victoria Amelina

Francesca d'Aloja

Due scrittori, Amelina l’ucraina e Héctor Abad Faciolince il colombiano, sotto le bombe russe. Il racconto della tragedia

Due mesi fa, il 27 giugno, un missile russo Iskander ha centrato un ristorante di Kramatorsk, in Ucraina, uccidendo dodici civili fra cui quattro bambini. Una notizia tristemente simile a tante altre, un orrore che prende forma anche nell’abitudine. I “civili” sono uomini, donne e bambini sconosciuti, tranne qualche eccezione. Una delle vittime del raid era infatti Victoria Amelina, 37 anni, scrittrice ucraina. Di lei i giornali hanno ricordato l’impegno per il suo paese, citando i suoi versi, le opere compiute e quelle che avrebbe desiderato compiere. Victoria stava infatti scrivendo un libro sui crimini di guerra perpetrati dai russi, basato sulle testimonianze delle donne. La notizia della sua morte mi ha particolarmente colpita, anche perché, accanto a lei, quel giorno, c’era una persona che conosco.

     

  Héctor Abad Faciolince (Wikipedia)
     

Héctor Abad Faciolince è uno scrittore colombiano che ho incontrato a Cartagena tre anni fa, un uomo nobile nel senso spirituale del termine. Sopravvissuto miracolosamente (è il caso di dirlo) al bombardamento, Héctor sta faticosamente cercando di ritrovare un equilibrio che gli permetta di raccontare quel che è accaduto nel solo modo che gli è possibile: cioè scrivendone, così come fece nel 2006, nel commovente memoir L’oblio che saremo (da cui è stato tratto un film diretto da Fernando Trueba) dedicato a suo padre Héctor Abad Gomez, medico e attivista per i diritti civili, trucidato nel 1987, a Medellín, dagli squadroni della morte. Cresciuto in un paese che per decenni è figurato in cima alla classifica dei paesi più violenti al mondo, Héctor Abad è un uomo che rifugge ogni forma di prevaricazione e di sopruso. Ed è forse questa la ragione del suo impegno per la causa ucraina. Nei messaggi che ci siamo mandati traspare un sentimento di tristezza e di impotenza nei confronti di un paese verso il quale prova un sincero trasporto, reso ancora più intenso dalla terribile esperienza personale vissuta. E poi, fortissima, la necessità di ricordare Victoria, la donna coraggiosa della quale ha condiviso gli ultimi quattro giorni di vita. Gli chiedo, titubante, se ha voglia di approfondire con me il suo ricordo, vincendo la sua riservatezza. 

  

Avendo studiato a Torino, ed essendosi rifugiato in Italia dopo l’assassinio del padre, fino al 1992, Abad parla perfettamente la nostra lingua, e inizia con una riflessione: “E’ per me interessante affrontare il racconto in un’altra lingua, che mi costringe a ulteriori riflessioni e forse mi aiuterà a mettere a fuoco nuovi elementi. Dopotutto è per questo che scriviamo, per cercare di capire, no?”

  

Perché Abad era andato in Ucraina? “Quando ho deciso di partire non l’ho detto a nessuno. Sapevo che la mia famiglia non sarebbe stata d’accordo, ma quando mi hanno invitato alla fiera del libro di Kyiv non me la sono sentita di dire che avevo paura di andare in un paese in guerra a delle persone che quella guerra la vivono quotidianamente. Ed era anche un’occasione per partecipare al lancio della campagna ‘Aguanta Ucrania’ (Resisti Ucraina), promossa da Sergio Jaramillo (Alto Commissario per la Pace ed ex viceministro della Difesa della Colombia) per coinvolgere intellettuali latinoamericani alla causa ucraina”.

  

Non sono in molti, in America Latina a essersi esposti… “In Sudamerica l’ostilità verso gli Stati Uniti, che appoggiano l’Ucraina, è molto diffusa. Soprattutto in Messico, Argentina e Brasile ho trovato una forte resistenza. Ho compromesso molte amicizie con i cosiddetti ‘pacifisti’ che rifiutano di capire che il solo modo per ottenere la pace è il ritiro di Putin e non la resa degli ucraini. Molti colleghi criticano ‘Aguanta Ucrania’ sostenendo che fomentiamo il conflitto, che siamo dei guerrafondai. Gente che dovrebbe avere onestà intellettuale, e ha pieno accesso all’informazione, si lascia condizionare dalla propaganda più bieca. Io mi considero un non-violento, un pacifista dal punto di vista filosofico, ma sono anche realista e so che in alcune circostanze ‘pacifismo’ è una parola vuota. Fa impressione che Lula abbia adottato la stessa posizione di Bolsonaro… Di questo abbiamo parlato a Kyiv, alla fiera del libro. E’ lì che ho conosciuto Victoria Amelina”.

  

Ti presentava lei? “No, la moderatrice era Catalina Gómez, una coraggiosa corrispondente di guerra colombiana. Victoria ha partecipato al dibattito insieme al premio Nobel per la pace Oleksandra Matviichuk e al filosofo Volodymyr Yermolenko. Il programma prevedeva che sarei ripartito il giorno dopo, ma poi…”. Cosa è cambiato? “Catalina ci ha proposto di posticipare il ritorno per andare a visitare l’est dell’Ucraina: ‘Se volete vedere gli effetti della guerra, è lì che bisogna andare’. Io non ero molto convinto, ma Victoria si è offerta di unirsi a noi: era in procinto di partire per Parigi dopo aver vinto una borsa di studio e le sembrava bello tornare nel Donetsk, una delle zone più colpite, per dare ‘il mio addio prima di partire’, così disse”. 

 

E così siete andati… “Sì. Nove ore di viaggio fino a Kramatorsk. Più ti avvicini al fronte e più si palesano gli orrori della guerra: ponti saltati, carri armati bruciati, autostrade adibite a piste d’atterraggio d’emergenza…”. Avete fatto delle tappe intermedie? “Victoria ci ha proposto di fermarci nel villaggio di Kapytolivka, dove viveva Volodymyr Vakulenko, lo scrittore ucciso dai russi”.

 

Vakulenko sapeva di essere nel mirino degli invasori che già lo avevano arrestato due volte. Per questo motivo aveva scritto un diario-testamento che aveva sotterrato nel giardino della casa dove viveva insieme al figlio autistico. Sei mesi dopo la sua morte (il corpo gettato in una fossa comune insieme ad altri quattrocento è stato identificato grazie all’esame del dna), Victoria Amelina ha ritrovato il diario scavando con le proprie mani sotto un ciliegio e da allora non ha smesso di battersi per la sua pubblicazione. Ci teneva che i suoi nuovi amici colombiani visitassero quel posto: Héctor l’ha ripresa con il suo telefonino per un’intervista improvvisata, senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima testimonianza filmata della sua vita.

“Aveva detto delle cose molto belle…” sospira Héctor, “ma non ho ancora trovato il coraggio per rivedere quel video…”

  

Che sensazioni hai provato avvicinandoti al fronte? Avevi paura? “No, non paura, disagio, nel vedere tanta sofferenza, come quella che ho colto negli occhi di un giovane soldato, amico di Victoria, che abbiamo incontrato durante una licenza, dopo mesi passati in trincea che lo avevano molto provato. Ricordo ciò che ci disse: ‘Io ero un pacifista convinto, ma quando ho realizzato che l’unico linguaggio che i russi capiscono è quello della forza, mi sono arruolato volontario’. Be’, aveva il sorriso più bello del mondo. E’ incredibile quanta bellezza riescano a sprigionare questi ragazzi, come in quel video dove un soldato, circondato dalla neve, recita una poesia persiana: ‘Chi ti darà la notizia della mia morte…?’ Ecco, io credo che la bellezza ci commuova, e così ci permetta di entrare in contatto con la loro sofferenza”.

 

Dal bellissimo L’oblio che saremo ricopio una frase di suo padre. “La compassione è in buona parte una qualità dell’immaginazione: consiste nella capacità di mettersi al posto dell’altro, di immaginare ciò che sentiremmo se ci trovassimo in una situazione analoga”.

 

Ci stiamo avvicinando all’ultimo giorno di vita di Victoria Amelina.

“Victoria durante il viaggio era stata molto malinconica, ma ora sembrava felice di aver ritrovato il suo amico soldato e soddisfatta per le opportunità che questa trasferta improvvisata ci aveva offerto. Ci sembrava bello concludere con una cena tutti insieme”.

 

Chi ha deciso di andare nel ristorante Pizza Ria? “Lei. Era uno dei pochi locali rimasti dove poter mangiare. Ma ora devo fare una premessa che avrà un significato fondamentale per quello che accadrà di lì a poco: quando sono partito per l’Ucraina ero reduce da seri problemi di salute che mi avevano prostrato. Il mio attaccamento alla vita non era più forte come un tempo, non che desiderassi morire, ma gli eventuali rischi ai quali mi stavo esponendo non mi spaventavano più di tanto, pensavo: ‘Se mi dovesse succedere qualcosa, almeno i miei problemi avranno fine’. Ebbene, per uno strano gioco del destino sono stati proprio questi problemi a salvarmi la vita”.

 

In che senso? “Quando ci hanno indicato il nostro tavolo, io mi sono seduto accanto a Victoria, alla mia destra invece ha preso posto Sergio, che parla a voce molto bassa. Ora, fra i problemi di salute di cui ti ho accennato, c’è stata la perdita dell’udito dall’orecchio destro, per cui mi sono spostato sull’altro lato del tavolo. Victoria si è dunque accomodata sulla sedia precedentemente occupata da me… Il fatalista chiamerebbe in causa il destino, il credente la Provvidenza, chi non crede penserebbe si sia trattato del caso… Io so soltanto che quel deficit uditivo, che consideravo penoso e invalidante, mi ha salvato la vita. Ci eravamo scambiati battute ironiche riguardo al fatto che non avremmo potuto brindare con vino o birra, nel ristorante non servivano alcool. L’ultima cosa che ha detto Victoria, guardando il mio bicchiere colmo di succo di mela è stata: ‘Sembra whisky!’. Lo ha detto sorridendo. In quel momento c’è stata l’esplosione. La struttura di cemento armato è crollata sulla gente che occupava la sala interna. Dopo l’onda d’urto, è sopraggiunto un silenzio irreale. Noi stavamo nel patio, e per questo ci siamo salvati. Victoria non sembrava ferita, non perdeva sangue. Se ne stava seduta, con il bicchiere ancora in mano, pallida come una pergamena, gli occhi socchiusi e la testa leggermente reclinata. Però non rispondeva alle nostre domande. Era stata ferita alla nuca da una scheggia. Sono stato preso dal panico, ho temuto che ci avrebbero colpito una seconda volta, come spesso accade, e vigliaccamente mi sono allontanato. Vagavo come uno zombi fra i detriti, in mezzo alla gente che urlava, mi sono messo a cercare la nostra macchina, l’ho trovata, era distrutta. Gli altri, che molto più valorosamente di me erano rimasti con Victoria, mi hanno raggiunto una volta che i soccorritori l’avevano caricata sull’ambulanza, e insieme abbiamo fermato una macchina che ci ha accompagnati all’ospedale. Lì ci hanno visitati e dimessi poco dopo, nessuno di noi era ferito, se non leggermente. Victoria invece è stata trasferita a Dnipro dove l’avrebbero operata. Catalina, che è una donna straordinaria, è andata con lei.  Io e Sergio abbiamo passato la notte senza chiudere occhio. L’intelligence russa ha immediatamente divulgato una serie di notizie false, prima sostenendo che i responsabili non erano i russi ma l’esercito ucraino, poi hanno dichiarato che il ristorante era stato colpito per errore e successivamente hanno giustificato l’attacco perché il secondo piano del ristorante era occupato da forze militari ucraine… peccato che non esiste, o meglio, non esisteva un secondo piano in quel ristorante… Ero già tornato in Colombia quando ho saputo che Victoria non ce l’aveva fatta”. 

Cosa ha aggiunto e cosa ha tolto questa terribile esperienza alla tua vita? “Ha aggiunto il grande rispetto che già avevo per il popolo ucraino e che avrei comunque avuto senza andare così lontano. Un popolo coraggioso e orgoglioso della propria identità. Però mi ha tolto la voglia di tornare in Ucraina… non credo che ci tornerò mai più”.

Victoria aveva un figlio di dodici anni. Immagino tu abbia pensato a lui, comprendendo forse meglio di altri il suo dolore. Tu hai perso tuo padre in maniera violenta così come lui ha perduto sua mamma. Hai voglia di incontrarlo, di conoscerlo? “Sì, certo. Quando hanno ucciso mio padre io ero già adulto, avevo gli strumenti per superare il trauma, ma la sua morte così ingiusta ha condizionato la mia vita cambiandola per sempre. Mio padre aveva combattuto per una causa giusta e lo stesso stava facendo Victoria, che ha dedicato l’ultimo anno della sua vita a smentire le menzogne e documentare la realtà mettendo da parte il lavoro di romanziera e di poetessa per riferire l’orrore e l’ingiustizia provocati dell’invasione russa. Denunciava i crimini di guerra pur sapendo che in molti non l’avrebbero creduta”.

 

Ecco, forse la denuncia più efficace e incontestabilmente autentica Victoria Amelina l’ha fatta morendo (“Quindi non temo né la guerra né la morte / Quando un missile colpisce la figlia dei vicini / Io protesto contro il cielo” aveva profetizzato nei versi di una sua poesia). La sua uccisione insieme ad altre undici vittime, è, a tutti gli effetti, un crimine di guerra. 

“Incredibile che per essere creduto tu debba farti uccidere” è l’amaro commento di Héctor, “e non è neanche detto che sia sufficiente… la consolazione della menzogna talvolta è preferibile alla crudezza della verità. Victoria Amelina non potrà raccontarlo, questo crimine, e io sento la responsabilità di farlo come avrebbe fatto lei. Ecco, il mio debito nei confronti del figlio è quello di raccontargli la verità. E’ giusto che sappia come e perché è morta sua madre”.

 

L’allarme aereo ovunque nel paese / Come se fossimo tutti trascinati fuori / Per la fucilazione / Ma solo uno verrà preso a bersaglio / Solitamente quello sull’orlo / Non è toccato a te, oggi; cessato allarme.

(Victoria Amelina)

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