Dettaglio dal gruppo scultoreo di Jules Dalou “La Fraternité”, 1883 (Wikipedia) 

CESARE, AIUTALO TU

Il generale contro i gay cita Giulio Cesare, simbolo di virilità. Non sa che l'antichità è tutta bisessuale

Michele Magno

Vantare illustri ascendenze di sangue, come Vannacci fa per ragioni identitarie, richiederebbe maggiore cautela. Per l'ex comandante della Folgore, non c’è solo l’esempio del “dictator” amante del re di Bitinia, "la moglie di tutti, il marito di tutte"

“Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione! […] La normalità è l’eterosessualità. Se a voi tutto sembra normale, invece, è colpa delle trame della lobby gay internazionale che ha vietato termini che fino a pochi anni fa erano nei nostri dizionari: pederasta, invertito, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, checca, omofilo, uranista, culattone che sono ormai termini da tribunale […] Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare, Mazzini e Garibaldi”

(Roberto Vannacci, “Il mondo al contrario”, Amazon, agosto 2023).

   
Ogni stagione ha la sua pena. Dall’estate militante di Elly Schlein siamo passati in un battibaleno all’estate “militare” del generale Roberto Vannacci. E’ bastato un pamphlet omofobo, che trasuda una ridicola arroganza patriottica, per suscitare una surreale polemica tra chi lo ha tacciato di misconoscere la Costituzione e chi, invece, ha agitato lo spettro del totalitarismo ideologico. Tuttavia, se l’autore mirava a spaccare l’opinione pubblica e a dividere la destra politica, occorre ammettere che ci è riuscito. Un successo, sanzionato dalla scalata nelle classifiche editoriali, che la dice lunga sulla condizione in cui versa il confronto delle idee in Italia. Aggiungo che se, come recita un celebre aforisma di Karl Kraus, “la libertà di pensiero ce l’abbiamo, ora ci vorrebbe il pensiero”, spicca nel libello (stampato a sue spese) dell’ex comandante della Folgore l’ignoranza di ciò che pensavano i nostri antenati sulla “normalità sessuale”, mantra dei suoi anatemi contro la dittatura delle “minoranze protette e privilegiate”. Vantare infatti illustri ascendenze di sangue, come Vannacci fa per ragioni identitarie, richiederebbe maggiore cautela e qualche informazione più precisa

    
Lasciamo stare la citazione di Enea, cioè di un profugo dell’Asia Minore, che mal si addice alle  sfuriate contro i migranti e alla tesi lombrosiana dei tratti somatici rappresentativi dell’italianità. E’ con il riferimento a Giulio Cesare (101/100-44 a.C.), simbolo della virilità, che Vannacci rasenta il ridicolo. Non è necessario avere dimestichezza con gli studi classici per sapere che il geniale “dictator” era stato l’amante di Nicomede, re di Bitinia (territorio collocato nel nord-ovest dell’odierna Turchia). Dolabella (esponente illustre della gens Cornelia) lo chiamava il “rivale della regina”. Curio il vecchio lo definiva “postribolo di Nicomede” e “bordello di Bitinia”. Ottavio, durante un’assemblea, si era rivolto a Pompeo apostrofandolo re, e a Cesare con l’appellativo di “regina”. Come se tutto questo non bastasse, durante il trionfo per la conquista della Gallia i legionari cantavano: “Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem” – Cesare ha sottomesso la Gallia, Nicomede ha sottomesso Cesare (Svetonio, Divus Iulius , anni Venti del II secolo d. C .). 

   

Cesare offriva un’immagine inconsueta: quella di un uomo che restava virile anche se poteva accadere che fosse sessualmente sottomesso

  

Cesare, quindi, era irriso coram populo. Ciononostante, la sua passività sessuale non era sufficiente per includerlo nella categoria dei “molles” (effeminati) o  dei “cinaedi” (svergognati). La sua devianza era tollerata grazie alla sua fama di adultero. Era stato l’amante di Postumia, moglie di Servio Sulpicio; di Tertulla, moglie di Crasso, e persino di Mucia, moglie di Pompeo. E poi c’erano le sovrane: Cleopatra e Eunoe, moglie di Bogude, re di Mauritania. Di lui si poteva dire, insomma, che era “omnium virorum mulier, omnium mulierum virum” – la moglie di tutti, il marito di tutte (Svetonio, op.cit.). Cesare, dunque, offriva ai romani un’immagine sessuale inconsueta: quella di un uomo che restava virile anche se poteva accadere che fosse sessualmente sottomesso. E a consentirgli di preservare questa immagine contribuì o, meglio fu determinante, un secondo fondamentale fattore, rappresentato dal mito della sua invincibilità. Perché per i romani “associare il valore in guerra e la potenza sessuale era inevitabile. Come poteva, chi si copriva di gloria combattendo, chi sconfiggeva i nemici, chi assoggettava i barbari, non essere sessualmente potente?” (Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, 1988). La virilità, infatti, era la massima virtù del cittadino. E la virilità era un attributo che comprendeva non solo la potenza sessuale, ma il carattere, la forza fisica, l’ingegno in battaglia. Il paragone tra l’amante e il soldato, del resto, per i romani era un topos letterario. Scrive Virgilio: “Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido” – ogni amante è un soldato, e Amore ha i suoi accampamenti. Come Cesare, anche Ottaviano (63 a. C.-14 d. C.), suo figlio adottivo e suo successore,  aveva un aspetto sessualmente sconcertante. Marcantonio, il suo collega triumviro, sosteneva che si era fatto adottare dal prozio cedendogli. Secondo lo storico inglese Edward Gibbon (1737-1794), dei primi quindici imperatori Claudio (10 a. C.-54 d. C.) fu il solo ad avere rapporti esclusivamente con le donne (Declino e caduta dell’impero romano, Mondadori, 2017). Ovviamente, sull’attendibilità delle biografie imperiali i dubbi sono più che leciti: lo stereotipo del tiranno vuole che egli sia dedito a ogni vizio, in primo luogo sessuale. Ma questo non toglie che  “Svetonio, in particolare, avesse accesso ai documenti di palazzo, e che quantomeno una parte delle sue informazioni sia veritiera, così come è veritiero, nelle grandi linee, il quadro generale dell’ambiente da lui descritto” (Cantarella, op.cit.).

  

Le uniche regole per i greci erano volte a garantire che la pederastia non degenerasse da strumento di formazione dei più giovani

  

A questo punto, merita un cenno anche l’etica sessuale dell’altra civiltà egemone nel mondo pagano. Per l’uomo greco, a partire dal momento più remoto al quale le fonti permettono di risalire, i rapporti omosessuali erano parte integrante di un’esperienza di vita regolata da una serie di norme sociali che ne stabilivano tempi e modi, e quelli della loro alternanza con i rapporti eterosessuali. Il che significa che tale esperienza era perfettamente lecita. Le uniche regole giuridiche in materia di rapporti sessuali, infatti, erano volte a garantire che la pederastia non degenerasse da strumento di formazione culturale dei più giovani, quale doveva essere, in promiscuità indiscriminata e diseducativa, moralmente e socialmente pericolosa. L’etica sessuale dei greci, così poco legata all’idea della “naturalità” del sesso – intesa come eterosessualità – era però un’etica sdoppiata: aveva cioè soltanto il genere maschile come soggetto. Per quello femminile, preso in considerazione soprattutto come strumento di riproduzione o di piacere, non esisteva riconoscimento alcuno della bisessualità: l’inderogabile regola sessuale della sua esistenza era quella di essere sottomessa a un uomo. 

  

I greci erano sicuramente bisessuali: nel senso che da ragazzi venivano amati da un uomo, nei primi anni dell’età adulta preferivano amare gli adolescenti, più avanti sceglievano le donne, e anche quando erano sposati potevano avere il loro “paidika” (un partner più giovane). Essendo inoltre al centro della formazione del cittadino, la pederastia era un fenomeno che quant’altri mai riguardava la polis. Detto altrimenti, era un’istituzione sociale a cui veniva affidato il compito di fare di ogni greco un “áristos”,   un uomo saggio e coraggioso. Ma i costi di questa istituzione, in termini di libertà, potevano essere elevati. Perché esigevano non solo controllo e autodisciplina: richiedevano, a volte, persino la rimozione delle pulsioni individuali. Riferendosi alle esperienze omosessuali passive avute in gioventù, Aristotele diventa quasi elegiaco quando osserva che “il ricordo del piacere provato provoca il desiderio di rinnovare il congiungimento che vi si accompagnava” (Quaestiones). Qui lo Stagirita sembra rappresentare il disagio patito nell’assumere il ruolo attivo da chi, da ragazzo, aveva scoperto un’inclinazione non solo transitoria alla passività. Un disagio tangibile, ma percepito solo da una minoranza: da quella élite, appunto, per la quale il rispetto delle regole era garanzia dell’appartenenza alla schiera dei “migliori”. Diverse erano erano le pratiche di massa di una popolazione in prevalenza del tutto analfabeta, e con ogni probabilità incurante del valore pedagogico di quelle regole. 

   

Torniamo a Roma. Come i greci, anche i romani consideravano assolutamente normali i rapporti sessuali tra uomini. Un convincimento era comune: quello per cui la virilità era inscindibile da un ruolo sessuale attivo. Senonché, a differenza dei greci, i discendenti di Romolo non ritenevano che per i ragazzi essere soggetti passivi fosse educativo. Sessualmente i ragazzi erano potenzialmente uomini, e come tali non dovevano essere mai sottomessi. La psicologia sessuale del maschio romano, in perfetto accordo con la sua etica politica, era quella del dominatore, peraltro persuaso di dispensare piacere al dominato. Non per caso nel bassorilievo di un fallo di pietra in erezione, conservato al Museo di Napoli, si può leggere “hic abitat felicitas” – qui abita la felicità. In questa radicata convinzione del romano sta l’assoluta incapacità di concepire e accettare l’amore saffico. Le “tribadi” (lesbiche), sprovviste dell’attributo che “dava la felicità”, per lui erano semplicemente delle povere folli, o delle malate che tentavano vanamente di usurpare le prerogative maschili. E’ pertanto evidente che l’educazione “sentimentale”  del ragazzo romano non poteva neppure lontanamente assomigliare a quella del suo coetaneo ateniese. D’altronde, a Roma l’adolescenza era breve: un quattordicenne era già considerato un adulto, e in quanto tale poteva sposarsi. Da qui i provvedimenti contro la pederastia: prima in via amministrativa, poi in via legislativa. Ancorché di incerta datazione, Svetonio menziona una “Lex Scatinia” che nell’epoca repubblicana stabiliva una sanzione pecuniaria per chi avesse stuprato un “puer ingenuus”, anche se consenziente, e pene più severe a coloro che non erano “casti”, ossia i cittadini maschi che avevano comportamenti “pathici” (passivi). Sebbene largamente inapplicata, la legge restò in vigore fino al principato di Domiziano (51-96 d. C.), che la integrò nel suo programma di riforma della giustizia. Al di là di queste limitazioni, il maschio romano poteva sfogare la sua esuberanza sessuale non solo con le donne, ma con i prostituti e gli schiavi. La sua omosessualità, in altre parole, rispondeva a una morale della sopraffazione e della violenza, era manifestazione del potere del più forte sul più debole, del padrone sullo schiavo, del vincitore sul vinto; e pertanto era – o doveva essere – esclusivamente omosessualità attiva. 

   

Ma già nei decenni terminali dell’èra repubblicana le cose cominciano a cambiare. Roma si ellenizza, un cambiamento di costumi e di mentalità espresso  in modo efficace dal famoso verso di Orazio (Epistulae): “Graecia capta ferum victorem cepit” – la Grecia conquistata ha catturato il suo feroce vincitore. Una trasformazione non solo del gusto artistico ed estetico, ma della stessa  etica sessuale. I romani scoprono l’amore efebico: ora anche i ragazzi potevano essere desiderati e corteggiati come le donne. E come le donne avevano imparato a fingere di resistere, a farsi pregare e finalmente a cedere. Al vecchio codice si affianca un codice nuovo, che però ricalca solo nei suoi aspetti esteriori quello ellenico. In una società in cui la pederastia non aveva radici culturali, nel cui passato non esistevano tracce di omosessualità iniziatica, l’amore per i “pueri” non aveva funzioni politiche e morali. La loro ritrosia serviva solo ad alzare il prezzo, ad alimentare la libido. Beninteso, corteggiare non era molto “romano”: ma era compensato dal fatto che, arrendendosi, il “puer” rassicurava la virilità di chi lo aveva conquistato. In modo diverso da quello rude e sbrigativo dei primi secoli, il maschio romano poteva continuare a sentirsi un dominatore. E poi continuava a sodomizzare i nemici.

   

Ha scritto l’antichista francese Paul Veyne che fra l’età di Cicerone e quella degli Antonini (96-192 d. C.) si verifica a Roma una metamorfosi delle relazioni sessuali che anticipa la futura morale cristiana del matrimonio (La vita privata dall’impero romano all’anno mille, Laterza, 2000). Indiscutibilmente, la tendenza alla continenza, talvolta addirittura all’astinenza, dell’etica tardo pagana solleva qualche perplessità sui rapporti fra gli uomini. Il filosofo Musonio Rufo (30-100 d. C.) li riprovava. Ma non perché contro natura, ma in quanto non finalizzati alla procreazione. E, coerentemente, era contrario anche al rapporto eterosessuale non riproduttivo. Solo la precettistica medica sconsiglia i rapporti omosessuali. Ma lo fa per ragioni sanitarie. Nessuna condanna morale, dunque. D’altro canto, il civis romanus era prigioniero della sua immagine di conquistatore, né poteva rinunciarvi facilmente. Per questo arrivò a barare con se stesso, e si inventò un alibi: quello dell’esempio dei potenti che avevano fatto grande Roma. Cesare era stato l’amante di Nicomede, lo sapevano tutti: ma Cesare era l’invincibile. E la virilità di Cesare era quella di tutti i cittadini romani. Ma perché l’alibi reggesse, occorreva che il modello della bisessualità restasse quello di sempre: sul piano dell’immaginario collettivo, non potevano esservi cedimenti.

   

La morale pagana era ormai inconciliabile con il cristianesimo, nuova religione di stato, che condannava l’omosessualità 

   

Questo modello crollerà definitivamente con il trionfo del cristianesimo, che afferma il principio della “naturalità” dei soli rapporti eterosessuali ereditato dalla tradizione ebraica. La morale sessuale pagana era ormai inconciliabile con la nuova religione di stato, che condannava l’omosessualità in tutte le sue manifestazioni. Gli imperatori esitarono a fare altrettanto. La virtù  cardinale della prudenza suggeriva di procedere per gradi. La legislazione non poteva non tenerne conto: ciò che era possibile fare subito venne fatto: la condanna durissima dei soli omosessuali passivi. A partire dal 342, con Costanzo la repressione ebbe inizio. Nel 438 Teodosio II li condannò al rogo. Ma il rispetto della morale cristiana esigeva che tutti i peccati che offendevano il Signore venissero puniti. Lo fece Giustiniano (482-565), l’imperatore bizantino a cui si deve il “Corpus iuris civilis”, che ancora oggi costituisce il fondamento di molti sistemi giuridici nazionali: tutti gli omosessuali, attivi e passivi, furono condannati a morte. Il concetto di natura degli antichi greci e romani fu cancellato con un tratto di penna. Nel corso di lunghi secoli, per le donne era stato “secondo natura” essere sottomesse, per gli uomini era stato “secondo natura” sottomettere donne e uomini. Adesso la natura con concedeva alternative, neppure a loro: l’unico atto “secondo natura” era quello eterosessuale.