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al di là dello spettacolo

La devozione per Jerzy Grotowski in un libro-indagine su ciò che c'è oltre il teatro

Pierfrancesco Giannangeli

Un viaggio nel mondo intimo del regista teatrale polacco. Alla riscoperta dei principi che vanno al di là dello spettacolo e della rappresentazione

Tutto ebbe inizio da una copertina che con un’immagine raccontava una storia: niente di simile era stato visto fino a quel momento, niente poi fu come prima. La storia arrivava, alla fine del 1969, da un luogo di là dal Muro, la città di Wroclaw, in Polonia, dove il regista Jerzy Grotowski, riconosciuto tra i padri della ricerca teatrale del secondo Novecento, aveva messo in scena con il suo Teatr Laboratorium uno spettacolo intitolato Apocalypsis cum figuris. La copertina era quella della rivista Il dramma, che il ventenne Marco De Marinis sfogliava trovandosi davanti con comprensibile sconcerto a una serie di foto sfocate che ritraevano attori impegnati in un’azione scenica avvolta dalla semioscurità, c’erano solo candele e qualche riflettore appoggiato a terra. Cominciò così quella che De Marinis, diventato in seguito studioso di fama internazionale e colonna per decenni del Dams di Bologna, dichiara essere “una lunga e costante, ancorché discreta, devozione per la figura di Jerzy Grotowski e per la sua avventura intellettuale e artistica”.

 

Devozione che ora si riversa in questo volume, un percorso all’interno della parabola umana ed estetica del maestro polacco, denso di riferimenti, citazioni e suggestioni, che lo definiscono con attenzione nella sua epoca, vale a dire il contemporaneo della scena di cui è stato un fondatore. Non è una biografia e non è un saggio critico, bensì, mescolando gli elementi, si rivela come una narrazione che affronta alcuni passaggi salienti di una vicenda che rende esplicita la nozione di teatro, riportandola alle origini. Concetto che per troppo tempo ha subìto il torto di essere considerato un’appendice della letteratura, il teatro è piuttosto arte autonoma, atto che prende vita nello spazio. Questo era per i tragici e i commediografi greci, questo colse Aristotele nella sua “Poetica”, che se da un lato certo intende riportare al centro del villaggio il peso autoriale, dall’altro rappresenta senz’altro un’analisi del farsi della scena grazie agli attori davanti agli occhi di un pubblico. Da studioso del teatro antico, allievo di Benedetto Marzullo, tale aspetto non poteva sfuggire a De Marinis, in particolare, tornando a quelle pagine del Dramma, quando lesse un lungo testo di Grotowski, il fondamentale “Teatro e rituale”. In questa riflessione il regista – un anticlericale che pose la figura di Gesù Cristo tra quelle basilari in tutta la sua vita – esorta a non imitare il rito religioso facendo teatro, bensì consiglia di trovare un equivalente laico attraverso la forza dell’attore e del suo “atto totale”. In questa definizione, De Marinis coglie il vertice del lavoro dell’attore e della relazione intima tra teatro e spettacolo. “Dopo l’“atto totale” – scrive – non c’era ancora un altro spettacolo ma forse un modo altro di fare teatro, di stare nel teatro, che andava oltre lo spettacolo, oltre la rappresentazione”.

 

E’ questo uno dei princìpi su cui si basa il viaggio nel teatro di Grotowski a cui il libro invita: un’indagine su ciò che c’è oltre il teatro a partire dal teatro, ispirata da alcuni passaggi salienti dell’opera sul palcoscenico, insieme al collegato pensiero teorico, del regista polacco. E in mezzo alla strada tante suggestioni: il lavoro sull’attore di Stanislawski come necessario antefatto per Grotowski, il concetto di “arte come veicolo” decisivo per l’azione del performer, il senso di alcune residenze nelle Americhe, il “teatro povero” che si risolve nel legame autentico tra attore e spettatore, il rapporto tra interiorità e corpo, alcuni spettacoli centrali (“Akropolis” e “Il principe costante”, oltre ad “Apocalypsis cum figuris”). E su tutto aleggia lo spirito di quel Terzo Teatro che non è tradizione ma neppure avanguardia, quanto piuttosto, come scrisse Eugenio Barba nel relativo manifesto per il Bitef, l’incontro internazionale di ricerca teatrale ospitato a Belgrado nel 1976, il paradosso di “immergersi, come gruppo, nel cerchio della finzione per trovare il coraggio di non fingere”.

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