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Verdi a Salisburgo. Bene regia e direzione, deludono le voci maschili del “Macbeth”

Alberto Mattioli

Era probabilmente l'opera più attesa di quest’estate per la compresenza di un regista discusso come Krzysztof Warlikowski e della star en titre del Festival, l’arcidivinissima Asmik Grigorian. Ne è venuto fuori uno spettacolo forte e riuscito, nonstante qualche incognita

L’opera più attesa di questo Salisburgo, anzi di quest’estate, era senz’altro il nuovo Macbeth, per la compresenza di un regista discusso come Krzysztof Warlikowski, che oltretutto ignora le mezze misure, quindi fa o tanto bene (Iphigénie en Tauride, per esempio) o tanto male (proprio Verdi, Don Carlos), e della star en titre del Festival, l’arcidivinissima Asmik Grigorian, debuttante come Lady. Warlikowski parte dalla mancata paternità dei signori Macbeth come causa scatenante della loro discesa nell’abisso: tesi non nuova, già esplorata, per esempio, da Damiano Michieletto alla Fenice. Dunque, mentre lui si intrattiene con le streghe, che sono poi delle normali sciure da circolo della canasta, “doppiate” però da inquietanti bambine mascherate, il Dottore visita lei e le comunica l’infausta novella. Per il resto, almeno per i primi due atti, la drammaturgia è quella di Verdi per interposto Piave, cambiano solo le immagini.

La scena, bellissima, con una lunga panchina di legno tipo sala d’attesa da stazione d’antan, sfrutta al meglio l’abnorme larghezza del palcoscenico del Grosses Festspielhaus e la regia è di un autentico virtuosismo tecnico: bellissimi video in diretta, recitazione superba da parte di tutti, masse mosse benissimo. Nella seconda parte, Warlikowski tende un po’ a prevaricare su Verdi, per esempio nel sonnambulismo che, benché splendidamente recitato, non è spoglio come dovrebbe (è il classico caso in cui meno ci si mette e meglio è: è già tutto nella vertiginosa musica di Verdi). La scena di Macduff è accompagnata dalla sequenza della strage degli innocenti dal Vangelo secondo Matteo, ma si sa che oggi PPP è come la rucola o il beige: sta bene su tutto. Nel finale, i due coniugi, ormai distrutti anche fisicamente (Macbeth è in carrozzella) non muoiono, ma vengono legati come salami e umiliati di conseguenza. Nel complesso, uno spettacolo forte e riuscito, anche se restano insoluti i consueti quiz warlikowskiani: perché mentre Macbeth canta, si fa per dire, “Pietà, rispetto, amore”, due giovanotti limonano sullo sfondo? E perché è onnipresente una vecchietta che sferruzza? Questa dell’uncinetto dev’essere l’ultima ossessione del Nostro. Anche nel recente Hamlet dell’Opéra un cortigiano danese era sempre lì a fare il punto e croce. Boh.

 

Quanto alla Grigorian, è noto che si tratta della migliore attrice del mondo dell’opera. Qui è fantastica sia come dark lady sofisticata nella scena del banchetto, con bananone in testa tipo Evita, sia come barbona demente e sfatta nel finale. Vocalmente, regge bene la parte, cosa sulla carta non scontata (con qualche aiutino, magari, come il daccapo della cabaletta tagliato), re bemolle pianissimo del sonnambulismo incluso; però è così concentrata sulle note che l’interprete vocale sembra meno incisiva del solito. Di memorabile m’è rimasta solo la seconda strofa del brindisi, allucinata e come ironica, che è una grande idea. 

Tagli a parte, dirige molto bene Philippe Jordan, secco e preciso come un cecchino, però mi era sembrato più personale a Vienna nello spettacolo capolavoro, il più bel Macbeth mai visto, di Barrie Kosky. Il vero problema è che, come insegnava l’Artusi, per fare il pollo arrosto bisogna per prima cosa prendere un pollo. Così per fare un Macbeth ci vuole Macbetto: Vladislav Sulimsky sarà pure un ottimo attore, ma canta in un modo che non passerebbe al Municipale di Piacenza o al Sociale di Rovigo, altro che Salisburgo. Il Banco di Tareq Nazmi è più o meno a questo livello, mentre Jonathan Tetelman, tenore bellone molto amato da signore e gay, cioè i quattro quinti del pubblico, ha tanta voce e la usa anche con criterio, sia pure con qualche eccesso veristicheggiante. Ma il gusto sempre più neoverista nel canto di oggi è una tendenza su cui bisognerebbe riflettere, prima di biasimarla a prescindere. Infine, non per allinearsi all’attuale nazionalsovranismo italiano, il Coro della Staatsoper di Vienna è buono, ma in “Patria oppressa” e non solo quello della Scala è un’altra cosa. 
 

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