Festival Salisburgo (foto da FaceBook)

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“Famolo strano”, l'estetica del cattivo regista. Mozart strapazzato in casa

Alberto Mattioli

A Salisburgo: Gluck una meraviglia, “Le Nozze di figaro” un disastro. Donne eccellenti, uomini poco convincenti. Regia ed esecuzione discutibili

Gluck batte Mozart uno a zero. Sarebbe già bizzarro così, diventa paradossale perché succede al Festival di Salisburgo, dove Orfeo ed Euridice è una meraviglia e Le nozze di Figaro un disastro. Come se a Genova sbagliassero il pesto, insomma. La regia di Martin Kušej sembra fatta apposta per dare ragione al Melomane Medio italiano, quello formattato sul “povero Verdi” o, in questo caso, “povero Mozart”. Tutto è ambientato in una specie di albergo, fra malavitosi che tirano fuori la pistola ogni due per tre e nel tempo che resta bevono e pippano. Per carità: anche nell’ultima “trilogia” dapontiana bella vista a Salisburgo, quella di Claus Guth, Don Giovanni si faceva di eroina, niente di scandaloso, e le Nozze per quel che mi riguarda si possono ambientare anche su Marte. Invece quel che non si può fare è, primo, tagliarle, eliminando oltre alle solite arie di sorbetto anche valanghe di recitativi e, secondo, riscriverli, oltretutto in maniera ridicola, per cui per esempio “recuperar vorria / il diritto feudale” diventa “recuperar vorria / certo spasso carnale”. A Salisburgo? Sogno, o son desto? Ma poi, perché? Kušej non costruisce affatto un’altra drammaturgia, ma si attiene, più o meno bene (più meno che più) a quella originale. E allora non si capisce bene perché fare carne di porco della più bella commedia mai scritta, se non in ossequio all’estetica del “famolo strano” che è l’ultimo rifugio dei cattivi registi (e finendo così per dare ragione a chiunque considera stravagante quel che non ha mai visto, specie poi se non ha mai visto nulla…).

Sul fronte musicale le cose non vanno meglio. Raphaël Pichon nasce come barocchista e naturalmente imposta di conseguenza le sue Nozze, con le agogiche estreme e i fraseggi frastagliati del Mozart all’antica. In buca però ha i Wiener che lo seguono a tratti, con il risultato di un’esecuzione incoerente e con dinamiche che non scendono mai sotto il mezzoforte, mettendo in difficoltà i cantanti. E poi non si capisce perché nei recitativi, quelli sopravvissuti, alcuni cantanti eseguano le appoggiature e altri no. A parte tutto, Pichon è corresponsabile, o almeno complice, del daponticidio, quindi indifendibile. In queste condizioni, dei cantanti eroici riescono perfino a dare l’impressione di credere a quello che stanno facendo. Le donne sono ottime: la solita Lea Desandre come Cherubino, Sabine Devieilhe come Susanna, e il soprano ignoto (a me, almeno) Adriana González, una Contessa dal timbro carnoso e dai magnifici pianissimo. Gli uomini sono meno convincenti, specie il rozzissimo Figaro. Nel complesso, una serata imbarazzante.

Si diceva dell’Orfeo di Gluck, ripreso dal Festival di Pentecoste e di cui si è già dato conto a suo tempo. In sintesi: la direzione di Gianluca Capuano, con i Musiciens du Prince e il coro “Il Canto di Orfeo”, splendidi entrambi, è una pietra miliare. Il Gluck wagnerian-marmorizzato di certa tradizione viene tumulato nella soffitta della storia e riparte da questo teatro musicale straordinariamente contrastato, drammatico, vitale. Lei/lui è Cecilia Bartoli, che come Orfeo non può fare valere le sue celebri agilità ma il carisma sì, e ne ha da vendere, oltretutto accompagnato da una presenza scenica soggiogante. Notevole anche Mélissa Petit, che fa un’Euridice insolitamente volitiva e combattiva. Lo spettacolo di Christof Loy, che firma regia e coreografia, risolve in maniera prevedibilmente riuscita la debolissima drammaturgia di un’opera dove il protagonista si lamenta per aver perso l’amata, la recupera, la riperde e si rilamenta. Non succede niente, insomma, e Loy se la sbriga con un gruppo di ballerini molto bravi che riempiono la scena. Non è uno spettacolo all’altezza della parte musicale, ma comunque bello da vedere e, come direbbero i MM di cui sopra, che “non disturba” le sublimità del cavalier Gluck (qui peraltro non nella consueta versione viennese del 1762, ma in un’interessante revisione di sette anni dopo a Parma, per delle nozze Borbone-Absburgo ovviamente malriuscite…). 

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