facce dispari

“La lirica ha bisogno di popolo e di star”, ci dice Gianluca Terranova

Francesco Palmieri

Tenore cinquantatreenne, romano della Garbatella, emulo ma non imitatore dell'inimitabile, ci spiega perché il trionfo dei melomani ha allontanato gli italiani dai teatri lirici

Ogni anno, attorno al 2 di agosto, qualche migliaio di persone sparse nei cinque continenti ricorda in qualche modo, e celebra immancabilmente, la memoria di Enrico Caruso, che in quel giorno del 1921 trascorse a miglior vita. Bordeggiando la ricorrenza, rispunta in mente pertanto facilissimo il nome di Gianluca Terranova, tenore cinquantatreenne, romano della Garbatella, emulo ma non imitatore dell’artista inimitabile, cui ha guardato sin dalla giovinezza come a una sorta di spirito guida. Gli dedicò un musical, un disco per la Emi (‘Terranova canta Caruso’) e soprattutto ne vestì i panni nella miniserie televisiva ‘Caruso, la voce dell’amore’, trasmessa su Rai 1 ormai undici anni fa. I dolci e amarissimi tratti della vita del divo rendono tuttavia insignificante il passaggio del tempo quando si parla dello scugnizzo che dalle postegge assurse a re del Metropolitan di New York, dell’innamorato tradito e infelicissimo, del cantante milionario prematuramente morto per l’insipienza dei dottori, del napoletano più famoso di sempre che solo dopo un secolo, anche con l’apertura di un museo, ha fatto (forse) pace con la sua città.

Chi è Caruso per lei? Un mito, un ispiratore, il maestro?

È una passione, la mia per lui, nata da due motivi: la sua tecnica vocale, che con un’emissione laringea e molto timbrata ne fece tra i primi cantanti d’opera moderni. E poi il risvolto umano dell’artista, che dalla povertà riuscì a raggiungere la vetta grazie a tremendi sacrifici. Caruso fu la massima icona pop mondiale, precorrendo il divismo che più tardi, con l’avvento del jazz e del rock, si sarebbe spostato sugli interpreti della musica leggera.

Al suo successo globale contribuirono più le incisioni fonografiche o le opere interpretate?

Entrambe. Quando ho ricantato ‘Musica proibita’ o ‘’A vucchella’ al modo suo mi hanno accusato di riproporre la “lirica della nonna”. La voce di Caruso è stata criticata per i troppi portamenti, ma evidentemente Puccini e Giordano glieli consentivano o glieli chiedevano. Il suo canto è uno specchio di quegli anni, di una lirica che non era ossessionata dalla pulizia. Tanto è vero che Caruso e Toscanini litigarono.

Oggi la partitura ha vinto sull’interprete.

C’era una fazione, per così dire, che piaceva ai compositori e che affidava il successo di un’opera ai cantanti, prima Caruso, poi i Del Monaco, i Di Stefano, la Callas. Ora invece ascoltiamo letture meravigliose però manca l’acuto, quella nota allungata, quel portamento che piaceva al pubblico più emotivo. Ha prevalso, soprattutto in Italia, la fazione dei melomani. La gente qualunque si allontana dai teatri lirici.

Perché in Italia soprattutto?

Perché qui è tutto pagato. Sono i soldi pubblici che mantengono l’Opera e il botteghino non conta quasi niente. È molto diverso in America, in Australia o in Cina, dove a dettare le sorti non è lo Stato ma il consenso del pubblico, che magari s’è tramandato la scoperta della lirica grazie a Caruso, a Joan Sutherland, a Pavarotti. E non dimentichiamo che anche Verdi si preoccupava dell’acuto della ‘Donna è mobile’ perché la gente doveva applaudire, e se non avesse applaudito, il teatro non gli avrebbe rinnovato il contratto.

Fu troppo duro Paolo Isotta quando scrisse che Pavarotti era un’analfabeta musicale?

Sopperì alle lacune memorizzando le opere che interpretava, ma sarebbe offensivo dire che andasse a orecchio. Lavorava più sull’imitazione, ma a conti fatti gli si può imputare qualche nota tenuta più a lungo o certe libertà di fraseggi.

Le star dell’opera non esistono più?

Ora arrivano le agenzie che propongono i cantanti del momento. Non c’è un altro Pavarotti che riempia il teatro solo grazie al nome e che procuri una vasta risonanza pubblicitaria. Chi sono le ultime star? Placido Domingo, che è spremuto come un limone mentre meriterebbe di essere lasciato in pace. O José Carreras chiamato a tenere i master in Cina, ma mi chiedo quanto possa più dare a un ragazzo che intraprende il percorso artistico.

I ‘Pavarotti and friends’ hanno reso un servigio anche alla lirica?

Luciano aveva una marcia in più, ma mi pareva ridicolo che intonasse le canzoni di Biagio Antonacci. Ho sperimentato anch’io i crossover, poi mi sono reso conto che sbagliavo strada. All’artista lirico conviene fare altro. In teatro, senza microfono.

Rispettando la partitura fino alla pausa di semicroma?

Prima del canto ho studiato pianoforte, perciò da musicista dico di sì. Però senza integralismo, a rischio di essere tacciato di fare “lirica della nonna” per cui, ad esempio, io sono in cartellone al Covent Garden ma non alla Scala. Faccio un esempio: fra le critiche più belle che ho ricevuto ce ne fu una al mio Duca di Mantova in un ‘Rigoletto’ all’Arena di Verona. Quel critico, che aveva ottant’anni, aveva visto il debutto della Callas. E titolò: “Terranova emoziona l’Arena” perché aveva conosciuto un altro mondo. Che non era quello del compitino pulito da portare a casa per accontentare una platea di filologi. Nei teatri italiani ormai non canta più chi piace alla gente, ma chi decide il sovrintendente.

 

  

Di più su questi argomenti: