Salutame a Socrate

Un'estate ad Atene: gli dei sono fuggiti dall'Olimpo e si nascondono in mezzo a noi

Edoardo Rialti

Già San Paolo fremeva “perché la città era piena di idoli”. Non importa che il turismo se la sia mangiata, oggi è un susseguirsi di magliette dei 300 spartani, pepli, la musica di “Zorba”

Le cose si vedono davvero solo la seconda volta, confidava Pavese, echeggiando a sua volta Menone e Socrate, un pensiero già pensato. Conoscere è sempre riconoscere. Che dire però dei luoghi in cui sei stato per tutta la vita, regioni della mente in cui hai camminato per anni e risultano indistinguibili da così tanti altri spazi, altri bivi? Arrivato all’aeroporto di Atene per la prima volta a luglio mi sono acceso una sigaretta sbirciando oltre gli edifici, verso il cielo e il profilo dei pendii spogli, gialli e marroni, nella fila dei taxi. “I am from Italy”. Il tassista sarebbe stato il primo di tre o quattro che avrebbe commentato citandomi Toto Cutugno: “Un Italiano vero.” E va bene.

  

Fuori dal finestrino, nel caldo stagnante, si susseguivano alte colline brulle, come quelle di Calabria e Sicilia che, da ragazzino, mi facevano dire “sembra d’essere in Grecia”, e adesso c’ero veramente. I nomi nelle segnaletiche obbligavano a mezzo sorriso incredulo, trovarseli davanti pareva incredibile come leggere un bivio stradale per Oz o Atlantide. Corinto, Eleusi… Da boschetti di pini dove qualche escursionista zampettava con un bastoncino da montagna per mano, si scende in città, una sterminata colata bianca di case e palazzoni. Oltre tre milioni di persone, parecchie discendenti degli immigrati dopo “la Catastrofe”, la cacciata da Istanbul. Sono salito all’Acropoli di corsa, passando dall’Arco di Adriano. “La Grecia contava su di noi affinché le facessimo da guardiani, dato che in fin dei conti pretendiamo d’essere i suoi padroni. Promisi a me stesso di vegliare sul dio disarmato”, gli fece poi dire Yourcenar.

   

Corinto, Eleusi… I nomi nelle segnaletiche obbligano a un sorriso incredulo, come leggere un bivio stradale per Oz o Atlantide

 

Salivo col fiatone, quasi di corsa, a testa bassa, zigzagando tra chi si metteva in posa per una foto accanto a qualche masso, un olivo, man mano che la vista si allargava. I nomi sui cartelli dei vari siti mi scorrevano davanti agli occhi e sbattevo le ciglia come a scuotermi, come per aggiungere vista alla vista. Il teatro di Dioniso e quello di Erode Attico, la collina dell’Areopago dove Oreste fu assolto dal matricidio e poi Paolo predicò il Dio ignoto ai filosofi increduli. E’ persino troppo, pensavo. Ci sarebbe voluto altro, silenzi rituali, una lunga preparazione per accostarsi e rievocare quelle voci e presenze. Non dovrebbero lasciarci salire così. E poi l’Acropoli, la rocca di Eretteo che fu assediata dalle Amazzoni, a tratti percorsa dal vento, con la grande vallata che arriva fino al porto che apre la conversazione nella “Repubblica”, quartieri e viali a più corsie nello spazio un tempo racchiuso dalle lunghe mura che gli spartani pretesero di abbattere alla rottura della pace di Nicia. Il tempio della Signora-Occhi-Azzurri che si doveva scorgere sfavillante già dal mare. Atena che prende per i capelli lunghi Achille, rovescio della vignetta del maschio preistorico che trascina la femmina nella grotta, per sussurrargli i suoi consigli di vendetta. Che nel conversare con Odisseo ricorre spesso al duale, la forma verbale della squadra, dell’io-e-te. Patrona della guerra ordinata, del passo stabile e costante in ciascuna impresa, sorride all’eroe mortale via via prediletto come una grande editrice di New York che porti uno scrittore mezzo squattrinato ma geniale e divertente a cenare in cima a un grattacielo.

 

GettyImages
  

Come scrisse Walter Otto, “mai forse fu messa dinanzi agli occhi in modo più commovente la presenza divina nell’istante della difficilissima prova, quanto dal creatore della metopa di Atlante del tempio di Zeus a Olimpia. La volta celeste grava sulla nuca dell’eroe e minaccia di schiacciarlo; ma, non vista, è comparsa dietro di lui la chiara e nobile figura di Atena, che con l’impareggiabile squisitezza del gesto, caratteristica della divinità greca, tocca leggermente il pesante carico – ed Eracle, che non può vederla, sente crescere in lui una forza gigantesca e può l’impossibile”. Sui gradoni della spianata dove avevano camminato Pericle e Demostene non sapevo bene come reagire, e allora mi sono chinato e ho baciato la terra. Luciano De Crescenzo pretese di camminarci scalzo. “Nel ’94 sono stato proclamato cittadino di Atene. Era un’occasione importante, quindi decisi di indossare un elegante vestito blu. Ma all’ultimo momento decisi di non calzare né calzini né scarpe. Mi dissi: ‘E quando mi ricapita di calpestare le pietre toccate dal mio amato Socrate?’”. E a proposito di De Crescenzo, qualche giorno dopo, passeggiando ai piedi dell’Acropoli stessa, nello sciabordio di risacca delle scarpe da ginnastica, ciabatte e sandali dei turisti, lungo la strada puntellata a intervalli da musicisti e cantanti, sono incappato in un teatrino per bambini, dove nientemeno che Pulcinella sbatteva la testa e parlava in greco. Aveva ragione l’Ingegnere ad ambientare nuovi dialoghi platonici nei rioni di Napoli e a scorgere Ermes nei sorrisi scaltri degli scugnizzi. “Salutame a Socrate”.

 

Potrei continuare così. Gironzolare nella pineta dell’Accademia di Platone, sbirciare la grotta della presunta prigione di Socrate, fare il morto a braccia e gambe spalancate nel mare in cui si gettò Egeo e che da allora porta il suo nome e che ha visto salpare Teseo, Achille, Alcibiade, “l’infinito sorriso dei flutti” di Eschilo… tutte esperienze che devono fare i conti con uno strano riaggiustamento, a un certo livello persino una certa iniziale frustrazione, perché l’aspettativa è tale che poi occorre ricordarselo. Sono davvero in Grecia. “Quella” Grecia. La nostra India temperata, rovesciando l’immagine di Henri-Marie de Lubac. Visnu, Shiva, Ganesh sono ancora onorati da 800 milioni di credenti. Zeus regna, ma in altro modo, ed è proprio questo che ho riscoperto laggiù, dove secoli di dominazione straniera, espropri e adesso decenni di turismo selvaggio che banchetta sulla crisi finanziaria, paiono aver seppellito e spogliato così tanto. Nell’aggirarsi per la capitale greca, già San Paolo fremeva “perché la città era piena di idoli”.

 

Anche oggi, le stradine sono un susseguirsi di ristoranti accalappia-turisti, negozi con le magliette dei 300 spartani, pepli, sandali, il tutto mentre più e più volte si coglieva la musichetta del film “Zorba il greco”. Odore di caffè greco, yogurt, omelette. “A proposito di un luogo, si dice subito se è intatto o sfigurato dal turismo. Si parla del turismo come di una malattia della pelle. La convergenza delle culture verso l’unità si verifica nel turismo e nella pornografia. Sono mondi paralleli, dove vigono regole simili. Massima riduzione nel repertorio dei gesti e delle azioni formalizzate. Minime differenze negli abbigliamenti e negli arredamenti”, notava Roberto Calasso. Giorgos Seferis l’aveva già espresso in pochi versi micidiali. “Che vogliono costoro che si credono di trovarsi ad Atene, al Pireo? / Uno di loro viene da Salamina e chiede all’altro se ‘viene dalla Concordia’ / Strana gente che crede di trovarsi nell’Attica / E non è in nessun posto”. Il viaggiatore accorto, da Pausania in poi, potrebbe benissimo dirmi che Atene “non è” la Grecia, che ci sono isole e villaggi dove ancora può svolgersi davanti agli occhi una poesia di Ritsos, Elettra che attinge acqua alla fonte, Demetra che sale sulla corriera vestita di nero da capo a piedi e domanda di sua figlia (accadde davvero negli anni‘60, lo riportò Mircea Eliade). Ma ciò non è forse vero anche in Calabria o in Sicilia? E proprio questo è il punto, forse. Dalla terrazza dove guardavo il Partenone illuminato di notte, parzialmente denudato (non si ruba la casa di un dio, quei gesti di marmo son fatti per essere ammirati laddove il loro significato è stato valido) improvvisamente mi sono sentito come se stessi visitando Chernobyl, fronteggiando le ciminiere e i reattori squarciati da qualcosa di immane che fosse esploso, dilagato. Quello che ero venuto a cercare, a omaggiare, non era più lì, non solo.

  

 “Theós” – dio in greco antico – è un predicativo, un’azione, esprime “qualcosa che accade”, quasi più un verbo che un sostantivo

  

Al ritorno, passando per Roma per poi arrivare a Firenze, mi sarebbe parso di percorrere un tratto di un fiume ben più vasto, la diffusione di quella medesima radiazione. Come propose Moni Ovadia, se pagassimo alle finanze greche uno spicciolo ogni volta che adoperiamo in qualche parte del globo una parola o un concetto che dobbiamo alla storia di quel paese, la loro economia stritolerebbe quella cinese. “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, scrisse Sallustio di Zeus, Afrodite, Dioniso. Sempre e ovunque. Socrate, Eschilo, Aristotele al pari di Ettore, Eracle, Elena, Poseidone non sono più semplicemente ad Atene perché laggiù, nel prodigio di alcuni secoli, è conflagrato qualcosa che poi si è propagato in ogni spazio della mente collettiva. Come notò Jacob Wackernagel “Theós” – dio in greco antico – è un predicativo, un’azione, esprime “qualcosa che accade”, quasi più un verbo che un sostantivo, esattamente come “Mortali”, l’espressione formulare per gli esseri umani, andrebbe meglio tradotto come “i Morenti”, quelli che non fanno altro che morire, goccia a goccia. In quelle strade e colline e boschetti intorno allo stadio Olimpico, dove qualche americano faceva jogging, sono state immaginate storie, concepite parole, vissute vicende che adesso agiscono dappertutto, onnipresenti, remote e distinte nei cieli come le stelle e prossime come la giugulare che pulsa.

 

“Siamo ancora mitici. Ancora perennemente intrappolati tra l’eroico e il patetico. Siamo ancora divini; è questo che ci rende così mostruosi”

 

La storia dell’arte, la poesia epica e lirica con la sua concentrazione violenta di sentimenti nella parola scritta, l’invenzione del teatro e il tribunale e la loro sovrapposizione (ogni processo è una rievocazione narrativa), le parole della filosofia e della politica, il sipario rosso come il sangue che cola sugli occhi di Edipo – a deciderne il colore fu Euripide in omaggio a Sofocle… I miti degli dei e degli eroi continuano a essere variati, citati, ripresi dai film Marvel e dai manga giapponesi. Dove ti giri, eccoli. La donna più bella di Tolstoj si chiama naturalmente Elena, Napoleone, nato a sua volta su un’isola, figlio di Letizia, è la reincarnazione di Apollo nato a Delo e figlio di Latona, l’ultima starletta della moda è ancora oggi una diva/dea che per il breve transito della sua popolarità sfoggia la cintura di Afrodite nata dalla spuma del mare. Ogni magnate dei social viene paragonato alla gloria maledetta di Mida o Creso. Ovunque ci giriamo, quelle parole, scene, volti sono già lì, a precederci. Democrazia, dittatura… Il ’900 si è aperto raccontando le nostre ossessioni con l’Edipo di Freud e il Dioniso-Apollo di Nietzsche. In ogni cammino di sofferenza e trasformazione riecheggia l’oscura ma densa intuizione che il dolore è anche il piedistallo dell’eroismo noto o segreto di ciascuno, giacché Eracle vuol dire proprio “la gloria di Hera”, sua persecutrice. Nelle parole di Calasso, “la giustificazione estetica dell’esistenza era stata il muto presupposto della vita greca governata dagli Olimpi… circoscritta alla precaria meraviglia del suo manifestarsi”. Tutto ciò si è imposto per mero contagio, senza la forza delle armi o della politica, a differenza di altri credi e immagini del mondo. Il dio disarmato, lo si difenda o no, ha già trionfato. Socrate prima di morire per la cicuta scuote i riccioli di Fedone un’ultima volta, sorridendo. Edipo, primo detective noir di un “cold case” dove l’investigatore è anche il colpevole, millenni prima di Ellroy e Chandler, si strappa gli occhi: “Siamo ancora mitici. Ancora perennemente intrappolati tra l’eroico e il patetico. Siamo ancora divini; è questo che ci rende così mostruosi. Ma l’impressione è che ci siamo dimenticati di essere ben più che la somma di tutte le cose che possediamo” sono versi recenti di Kae Tempest, e il suo rap, come quello di Eminem o Travis Scott, deriva dai giambi di Ipponatte e Archiloco, perché Ares insanguinato e furente ha imparato la danza dalle Muse. Dove trovarlo, allora, tutto questo? Dove ci ha raggiunti. Molto prima di immergermi nell’Egeo, Poseidone mi aveva già agguantato nel Tirreno.

 

Milos Bicanski/Getty Images 

Le Ninfe già si scorgevano nella luce del sole sul dorso delle foglie verdi sulle colline sopra Pistoia. Laddove meno te lo aspetti, magari, superando e uccidendo ogni feticismo, che è sempre e solo superstizione. In un cinema all’aperto nel centro del quartiere delle case occupate di Atene, mentre cala il silenzio e generazioni diverse, la birra e le patatine e i posaceneri sui tavolini, guardano assieme “Teorema” di Pasolini, il divino e sacro senza nome che seminano struggimento e panico in un mondo ossessionato da slogan e giocattolini tecnologici. Nel frinire delle cicale o nel vento che si leva al tramonto, e che sono gli stessi al Licabetto come altrove. Mi aggiravo tra i santuari degli dèi nell’Agora parzialmente ricostruita, tributando onore a ciascuno – è sempre pericoloso dimenticarne qualcuno, Agamennone lo seppe fin troppo bene. Un pensiero-preghiera su ogni soglia.

 

Non individuavo però le rovine del santuario di Apollo. Il calore premeva sulla fronte e allora ho alzato gli occhi al cielo di mezzogiorno. Eccolo lì, nel suo tempio perenne, in tutta la sua forza, a dirmi che, ovunque avessi sollevato lo sguardo, avrei potuto trovarlo a fissarmi ambiguo e abbagliante. Perché, come scrisse Thornton Wilder dall’altra parte dell’Oceano, ogni uomo che sieda in riva al mare e pianga per la nostalgia di casa, può scoprire che la divina sapienza in forma di fanciulla armata siede già accanto a lui, pronta a conversare assieme, ed escogitare una via per il ritorno.

Di più su questi argomenti: