Marcel Proust (Ansa)

Dal treno per Foggia al lago di Villa Borghese. Che brutta fine, povero Proust

Antonio Gurrado

Con Alain Elkan, nelll’ultima ridotta della divisione in classi, in barca con Nanni Moretti, o nel celebre "C'era una volta in America".  Tutti i luoghi incongrui in cui si è trovata la "Recherche"

Forse perché non sono un lanzichenecco, della condivisibile intemerata di Alain Elkann un dettaglio mi ha stimolato più di ogni altro: quale edizione di Proust aveva con sé? Dice che stava leggendo il secondo volume, specificamente “il capitolo Sodoma e Gomorra”: definizione impropria, poiché “Sodoma e Gomorra” costituisce uno dei sette romanzi a sé stanti nella “Recherche”, a sua volta diviso in due capitoli, il primo dei quali occupa in effetti la fine del secondo volume nell’edizione dei Meridiani soavemente tradotta da Giovanni Raboni.

 

Mentre, tradotto da Elena Giolitti, è il quarto volume nella storica edizione Einaudi, pur riapparendo nel 1991 spacchettato fra nono e decimo tomo della collana Tascabili e poi fuso nel monovolume di duemilatrecento pagine nella collana Biblioteca del 2017. Elkann tuttavia ne cita il titolo francese, quindi sarà stata un’edizione in lingua originale: non certo l’economicissima Folio, suddivisa nei canonici sette volumi, né la Flammarion che lo distribuisce fra sesto e settimo tomo. Non credo si tratti di uno dei pacchiani cofanetti bipartiti – la Omnibus 2011 o la Bouquins 1987 – ma della ristampa Gallimard uscita l’anno scorso, che riprende l’autorevole edizione Pléiade 1989 (dove “Sodoma e Gomorra” figurava al terzo volume) eliminando del tutto l’apparato critico curato da Jacques-Yves Tadié onde ficcare tutto in due tomi.

Strano che nessuno dei compagni di viaggio abbia chiesto lumi filologici a Elkann: non solo perché la scelta dell’edizione, popolare o ricercata, è dirimente per un autore capace di stilare un migliaio di pagine memorabili sul malriposto snobismo della volgare madame Verdurin o sulla spietata aristocrazia di Charlus e della duchessa di Guermantes. Più ancora perché, sorprendentemente, la “Recherche” si cala alla perfezione in ambienti incongrui come il treno per Foggia, ama emergere per contrasto in contesti pop – un po’ come quando Nanni Moretti, in “Bianca”, va a leggere Proust in barchetta a Villa Borghese per rimorchiare, poi getta in acqua il volume (spero non la Nuova Universale Einaudi 1963) perché a passanti e turiste non gliene può fregar di meno.

 

Ancora oggi, nel film di cui tutti parlano, un dirigente Mattel dice che purtroppo Barbie Proust non ha avuto gran successo, così come Steve Carrell in “Little Miss Sunshine” definiva Marcel “uno sfigato di prima categoria, che non ha lavorato un giorno in vita sua” e Robert De Niro, interrogato in “C’era una volta in America” su cos’avesse fatto per trentacinque anni, li riduceva a un “Mi sono coricato di buonora”. Simile al polo di un magnete che attrae quello opposto, Proust sembra trovarsi a proprio agio fra i lanzichenecchi, e l’articolo di Elkann non avrebbe avuto la stessa eco se il libro fosse stato di Stendhal o di Balzac: troppo etereo l’uno, troppo terragno l’altro. A nessuno di loro avrebbe dedicato un intero spettacolo il rapper francese Oxmo Puccino (che magari i ragazzacci sul treno ascoltano pure) poiché rapito dal ritmo, dalla scansione delle frasi leggendo ad alta voce la “Recherche”.

La Bonne Maman, una specie di Mulino Bianco d’Oltralpe, cavalca Proust nelle pubblicità delle madeleine al burro; l’editore Denoël gli ha dedicato un “Proustografo” che lo converte in numeri e grafici per chi non ha sbatti di leggere; un ristorante ha intitolato, con facile calembour fonetico, “Marcel Prout” un piatto a base di fagioli e, giusto l’altro giorno, i dieci pensieri più profondi di Proust sono finiti su un numero di Vogue da consumarsi in spiaggia. Mancava quello sul “meraviglioso miracolo della lettura, comunicazione in seno alla solitudine”, che proviene da una nota alla sua traduzione di Ruskin e che avrebbe fatto comodo a Elkann (la solitudine, intendo, per leggere in santa pace).

Sorprende soprattutto che questi, come Proust, sia stato a torto accusato di classismo, quando invece il suo articolo dimostra il contrario: che cioè perfino sull’ultima ridotta della divisione in classi, il treno, non vige distinzione fra lanzichenecco e hidalgo, ormai mescolati in un tutto indistinto. Esattamente ciò che Proust aveva raccontato cent’anni fa, mostrando madame Verdurin che riceve il titolo di duchessa di Guermantes; bastava arrivare all’ultimo volume. 

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