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Il significante

Il "Grigio", colore infido della contemporaneità. Peter Sloterdijk indaga la politica delle sfumature

Mariano Croce

Il filosofo tedesco studia la tinta trasformista per eccellenza nella storia, nella filosofia, nella mitologia, nella politica e nell’arte analizzando la sua innata capacità di mimesi, metamorfosi e infiltrazione

Nel marzo del 1455, il mercante veneziano Alvise Da Mosto, in cerca di fortuna, seguì la rotta a ovest dell’Atlantico, verso sud, oltre le Canarie, in direzione di quella che chiamava “la terra dei Negri”. Diverse settimane dopo, la sua nave raggiunse l’odierno Senegal. Qui, da illusionista del commercio, Da Mosto si procurò cento schiavi africani in cambio di pochi cavalli spagnoli e tessuti italiani. A celebrazione dell’affare, mosse verso l’entroterra accompagnato dalle autorità locali. Quando un giorno decise di lasciare la guida sicura dei suoi ospiti per far visita a un mercato locale, la sua presenza provocò sconcerto tra gli astanti: “Questi Negri, sì mascoli como femine, me vegnìa a guardar per una maravelia, e parevali nova cossa a veder un christian in simil luogo e mai per avanti non visto; e non de meno se meraveliaveno del mio habito che de la mia biancheza”. Gran sorpresa per Da Mosto l’esser trattato come “bianco”. E in effetti ai tempi suoi, e a lungo dopo la sua morte, gli europei non si consideravano tali. 

L’aggettivo veniva perlopiù usato per descrivere popolazioni non-europee, quali i persiani, gli asiatici e i nativi americani, e distinguerle così da quelle africane. Eppure, col moltiplicarsi delle stazioni di commercio lungo la costa dell’Africa occidentale nei secoli XV e XVI, e in special modo nelle colonie del Nuovo Mondo, si fece largo un problema organizzativo, quindi politico, per risolvere il quale la bianchezza fu trasformata in status giuridico. Con i coloni europei e gli schiavi africani che vivevano fianco a fianco, i governi coloniali temevano che la loro multietnica forza lavoro, composta di servi bianchi e schiavi neri, si coalizzasse per orchestrare una rivolta. Il problema, quindi, era come distinguerli tra loro e in tal modo tenerli per legge distinti. Se “negro” era termine ampiamente diffuso per indicare le persone di origine africana, non esisteva un equivalente per gli europei. S’era provato con “cristiano” o “inglese”, ma il primo termine era di spettro troppo ampio, dacché molti africani erano conversi (coatti o convinti che fossero), mentre “inglese” era di spettro troppo ristretto, dacché le giacenze di servitù bianca a buon mercato erano ben distribuite ovunque in Europa. A partire dalla metà del Seicento, si optò quindi per il termine “bianco”, depurato del suo originale esotismo, e lo si rivestì di valore legale. 

Questo breve racconto senza fini morali non è che uno tra i molti esempi di come i colori siano uno degli strumenti chiave con cui gli esseri umani categorizzano il mondo, danno significato alle cose e quindi operano distinzioni – distinzioni per giunta capaci di radicarsi tanto da far perdere ogni traccia della loro origine storica. Per spiegare il meccanismo, in filosofia e altre scienze umane, si usa quel termine all’apparenza complicato che è “significante” – complicato all’apparenza, appunto, in quanto non si tratta che del participio presente del verbo “significare”: qualcosa che dà significato a qualcos’altro. Ma il termine in questione intende asserire un che di più rispetto alla semplice azione del significare: mette in risalto come tra la cosa che dà significato e quella che l’assume non sussista alcuna relazione necessaria, naturale, inevitabile. Per “significare” i bianchi, s’è preso in prestito un tratto tra molti possibili (al di là del fatto per sé noto che bianchi gli europei non sono). Del pari, il tratto della bianchezza è messo a indicare un fatto, come la spietata supremazia politica delle popolazioni europee su molte altre, che s’è sì verificato, ma avrebbe potuto non verificarsi. In effetti, tutti si converrà sulla conclusione che i colori non hanno di per sé un significato intrinseco e che il loro significare dipende da fattori storici e culturali. In occidente, il bianco è stato a lungo identificato con entità belle e confortanti come la luce, la vita e la purezza, mentre in alcune zone dell’Asia s’associa alla morte. In inglese il verde è il colore dell’invidia, mentre in francese indica la paura, in tailandese la rabbia e in russo la tristezza o la noia. Nella politica statunitense, il rosso denota la conservazione e il blu il progressismo, mentre in Europa perlopiù si verifica l’opposto. 

Malgrado ciò, un recente libro di Peter Sloterdijk sembra voler argomentare in senso contrario. Non tanto perché il filosofo tedesco voglia negare la storicità del modo in cui i colori prendono a significare le cose, quanto perché, a dispetto delle contingenze storiche, alcuni colori a suo avviso hanno una connaturata forza iconica. Un’argomentazione tanto singolare non poteva che adottare come perno il colore che più si presta al trasformismo e che dà titolo al libro: Grigio. Il colore della contemporaneità (Marsilio 2023). In quattro capitoli e quattro digressioni, Sloterdijk rintraccia la costante presenza del grigio nella storia, nella filosofia, nella mitologia, nella politica e nell’arte. Il cuore della tesi è che la mutevolezza del grigio non sia dovuta agli accidenti della storia, bensì alla sua innata capacità di mimesi, metamorfosi, infiltrazione – la stessa capacità che fa del grigio il colore del nostro tempo. Sloterdijk s’assegna il compito di illuminare la costanza universale del grigio a partire dal principio-manifesto di Paul Cézanne: “Finché non si è dipinto un grigio, non si è pittori”, che a suo avviso si applica anche, forse soprattutto, alla filosofia. E Grigio persegue un obiettivo tanto ambizioso con volteggi ingegnosi e un po’ stranianti tra il livello colto e quello divulgativo. Ma sullo stile dell’autore, ha pienamente ragione Mirko Alagna, uno dei massimi esperti di sloterdijcchismo, quando definisce il Nostro come “culturalmente bulimico e volutamente divagatorio, la lettura dei suoi testi assomiglia all’attraversamento di uno sciame di spunti di ricerca, un nugolo di motivi di interesse collegati sempre per vie traverse” (M. Alagna, Peter Sloterdijk, DeriveApprodi 2021).

In linea con tale propensione all’acrobatica, nel libro la teoria del grigio emerge per via di pittate espressionistiche e riesce al meglio soprattutto là dove il tasso di teoresi è ridotto, e quello di divertimento massimo. Cerchiamo dunque di fare un punto il meno erratico possibile. E’ noto a chi l’abbia già letto che per Sloterdijk ogni vicenda della storia presente va pensata a partire dalla storia del comunismo reale, nato come svuotamento delle risorse d’energia di masse rurali che al tempo non potevano avere alcun motivo di rancore verso il capitalismo. Di lì, il comunismo intensificò i suoi fallimenti trasformando il potere in licenza di uccidere per mezzo di dispositivi retorici e tesi metafisiche, assieme alle ben più vistose pratiche di sterminio. In linea con tale assunto metodologico, anche del grigio contemporaneo Sloterdijk rintraccia le origini nel medesimo registro fallimentare. Il grigio, egli sostiene, va pensato a partire dal rosso dei rivoluzionari giacobini, sì, ma soprattutto dei suoi eredi stalinisti e dei successivi esperimenti di socialismo reale. Il comunismo è stato una forza politica che a tutta prima soffriva di radicalismo, quando s’incoronò forza motrice di una ritinteggiatura in rosso dell’universo intero, e via via, un po’ per scelta un po’ giocoforza, è trascolorato in un grigio sempre più titubante. A conferma di una tale filosofia della storia, Grigio evoca le osservazioni del giornalista Sergej Lochthofen, collaboratore di Das Volk, organo di stampa ufficiale della Repubblica democratica tedesca, e poi direttore del Thüringischen Allgemeine. La Germania dell’est, nella sua progressiva trasformazione in regime dell’opinione mutilata e del pluralismo farsesco, incarnava al meglio la creazione comunista della zona grigia, in cui si trovavano cavoli e carote, né si doveva fare la fila per il latte e il pane, eppure tutto era ricoperto di muffa grigia per gente grigia in un paese grigio. Non ci si riconsoli però all’idea che quel mondo abbia trovato fine un trentennio fa, perché il mondo andato ha saputo ben innestare i suoi semi avvelenati nel mondo a venire. E difatti Sloterdijk non intravede alcuna brillantezza di colore in un paesaggio, come quello odierno, dove le coalizioni partitiche convergono sull’apertura “a una politica di regolamenti ecoburocratici che impongono allo Stato, tanto incompetente quanto oberato, la direzione da seguire durante la sua menopausa postdemocratica”.

Ma Sloterdijk non s’incomoderebbe a vituperare il grigio se non fosse al contempo in suo potere tesserne un inatteso elogio. Né dovrebbe stupire che un tale “conservatore elastico”, come egli stesso s’è definito, possa apprezzare la qualità obliqua che porta il grigio ben al di là dei convenzionali rimandi alla cupezza, all’indifferenza o alla neutralità. Il grigio non si presta solo a una teoria negativa dei colori, proprio perché non è né la loro somma né assenza di luce. La massima virtù del grigio è che esso non può qualificarsi né come semplice presenza di altro né come assenza di altro ancora. Per questo Cézanne, secondo l’autore, se ne metteva sulle tracce come fosse la ragion d’essere del suo mestiere: “Bisogna trovare il grigio” – quella sfumatura complessa che riluce nelle sue “sublimi tovaglie bianco-grigie delle nature morte”. Erede di un tale progetto estetico, nel libro Sloterdijk sembra voler fornire una mappa per navigare quel grigio che, a una lettura più attenta, si rivela caratteristico di ogni epoca, proprio perché alfine ogni epoca muove da una iniziale isteria cromatica verso la necessità di successive mediazioni. E in questo si elegge a erede di Hegel, Nietzsche e Heidegger, gli unici che a suo avviso non si sono lasciati frodare dal generale disdegno per il grigio. Con loro, la filosofia si è riscoperta quale investigazione del “grigio su grigio”, l’arte cioè di riuscire a fare le dovute differenze quando ci si trova nelle zone in cui tutto sembra eguale a tutto. Distinguere là dove non sembra più possibile distinguere nulla mediante “il processo continuo e il lavoro sempre nuovo del concetto che evita la fretta eccessiva”, senza “concedere nulla alle affermazioni della domenica”.

Con tutta probabilità, il principale obiettivo polemico del libro è quella spinta “rosso-radicale” che oggi va privandosi di intensità per meglio saturare ogni fessura: “[Q]uelle varianti passivo-aggressive del femminismo che, tra tutte le donne, danno risalto a quelle che hanno subito molestie; ha già preso piede nella giovanile ideologia woke, la quale esibisce la propria sensibilità intollerante ai simboli delle differenze sgradite”. Insomma, l’aspirazione a salvare il mondo tipica di forze politiche che vogliono trasformare la loro sensibilità in senso comune e che oggi operano non con le armi ma con strepito morale e freni al dissenso altrui. Al di là di chiassose diatribe, in Grigio si coglie uno slancio autentico verso un’eccentrica “politica della differenza”, intesa quale rifiuto del grigiore oggi prodotto da un innegabile e crescente uniformismo. Il dubbio di chi scrive, tuttavia, è se la ricetta proposta nel libro sia la più riuscita. Sloterdijk esalta una politica del quotidiano che nel grigio riesca a separare quanto è consigliabile lasciarsi alle spalle da quanto è bene portare con sé. Egli ricava una tale carica politica dallo scivolosissimo Heidegger, che intendeva soffiare via la polvere dalla vita quotidiana e con ciò liberare il soggetto umano dal carattere neutro di osservatore disinteressato del mondo: “Il ‘mondo’ non è una cosa che si ha davanti come il pane, di cui si taglia una fetta”. L’esistenza, in questa ottica, diventa un’immersione filosoficamente più attrezzata in quegli stati d’animo, come “angoscia, noia, malinconia, fiducia”, che trascinano la vita umana in territori caliginosi in cui il rischio è sempre che nulla si lasci distinguere da nulla. Per vivere nell’inevitabile grigio senza tuttavia esserne assorbiti, sembra dire Sloterdijk, bisogna acuire l’umana propensione al buon filosofare e così nel grigio e del grigio imparare a distinguere le sfumature impercettibili all’occhio incolto. 

Per carità: non che da tutto questo si possa distillare un’imperdibile lezione politica o indicazioni di sorta sul vivere comune. Né la teoria dei colori accennata nel titolo s’affaccia mai davvero all’interno del libro, se non nell’insieme di un affresco poco più che impressionistico. Ciononostante, con qualche buon argomento, sostenuto dalla consueta arguzia, Sloterdijk rafforza la convinzione che le nostre vite, checché se ne creda, sono brutte e che in tale e tanta bruttura, se facciamo buona filosofia, si può trovare comunque qualche momento di pausa estetica e morale. D’altro canto, non è forse questo il tratto di fondo del romanzo moderno e, scava scava, dell’arte tutta da che mondo è mondo? Con qualche capriola di troppo tra vivaci affreschi storici e studiatissime quanto evitabili provocazioni, Sloterdijk svolge al meglio il compito che fa filosofo il filosofo: dirci che lui ha capito tutto, e per certo molto meglio di noi, e che, se il passato era orribile, quanto ci aspetta in futuro in nulla è migliore. La morale che se ne trae, senza nemmeno il gusto del paradosso, è la stessa della massima, attribuita a Putin, secondo cui, se non dispiacersi per la disgregazione dell’Urss è segno di un cuore indurito, il tentare di ricrearla tal quale è segno di stoltezza.

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